Tenute Pacelli, terre antiche e nobili sapori

Valle dell’Esaro, nord della Calabria appena sotto il Massiccio del Pollino. È qui, nei dintorni del castello normanno di Malvito, che si sviluppano i vigneti di Tenute Pacelli, azienda a conduzione familiare dalla forte impronta femminile. Clara e le figlie Carla e Laura la gestiscono dal 2010, con una filosofia incentrata su tre punti cardine: coltivazione biologica, sperimentazione e accoglienza. Abbiamo chiesto a Laura Pacelli, responsabile marketing, di raccontarci la storia della cantina di famiglia.

Come e quando nasce la vostra azienda?
“I terreni sono da secoli di proprietà dei baroni La Costa, da cui discende la famiglia materna di mio padre Francesco. Verso la fine degli anni ’60 mio zio Gaetano decise di lasciare Napoli e trasferirsi a Malvito, iniziando a piantare le prime barbatelle di sangiovese, canaiolo, merlot e cabernet franc, ispirato dall’idea di esportare il taglio bordolese in una terra che all’epoca non veniva considerata vocata per quei vitigni. Dopo la scomparsa di Gaetano, la gestione dell’azienda passò in carico a mio padre, che fino ad allora aveva fatto l’avvocato. A cavallo del nuovo secolo abbiamo iniziato una prima ristrutturazione, sistemando le vigne e aggiungendo alcuni autoctoni come magliocco, calabrese e greco bianco, oltre al riesling.”

E a questo punto arrivano le donne della famiglia…
“La prima è stata mia madre Clara e poi a cascata io e mia sorella, che all’inizio ci siamo occupate della comunicazione, di promuovere l’azienda. Abbiamo iniziato con una produzione molto ridotta, facendo i classici test con gli amici e gli amici degli amici. Il vino piaceva e ci siamo lanciate. In questi ultimi dieci anni, che poi sono i primi veri al 100% come cantina, siamo cresciuti molto.”

LAURA E CARLA PACELLI

Parliamo del territorio, che non è ancora così conosciuto al grande pubblico. Come mai?
“La Calabria probabilmente è la penultima, se non l’ultima, regione ancora da scoprire per quanto riguarda la viticoltura. Rispetto ai nostri vicini pugliesi e siciliani, che ormai sono lanciati da un po’ di tempo, siamo ancora indietro. Loro sono riusciti meglio di noi, anzi prima di noi, a fare promozione reale e non soltanto di facciata, quindi con azioni concrete sul territorio e sull’agricoltura, supportando le aziende con bandi e incentivi. Dobbiamo fare anche un mea culpa, e uso il noi pur essendo in realtà napoletana e non calabrese, perchè per molto tempo abbiamo peccato di arroganza, del tipo noi facciamo il vino buono, quindi prima o poi qualcuno se ne accorgerà.”

Quanto il turismo può essere di aiuto in questo, sulla scorta di esempi come il Salento o la zona del Cirò?
“Il turismo in generale, prima ancora dell’enoturismo, è la chiave di volta. Se le persone non sanno che esisti, è improbabile che possano apprezzare quello che produci. In Salento ad esempio, è diventato famoso il vino perché si andava in vacanza lì. Nel Cirò è successa una cosa simile, con aziende come Librandi che sono state in prima linea nella promozione della zona. Per quanto ci riguarda, stiamo lavorando tantissimo da questo punto di vista, con un’offerta di ricezione nelle nostre case coloniali, in attesa di rimettere a posto il castello di fine ‘700. L’idea è di ospitare le persone in modo tale che quando tornano a casa, parlino non soltanto del posto bello che hanno visitato, dell’ospitalità e dei sorrisi, ma anche dei prodotti che hanno assaggiato. La soluzione migliore è quella di promuovere non solo la propria azienda, ma il territorio attraverso di essa.”

Cosa hanno di speciale queste “terre antiche”?
“La zona di Terre di Cosenza, che è la DOC che si sta costituendo, presenta un terroir molto variegato: abbiamo argilla, calcare (da lì la scelta del riesling), altre zone più sabbiose. Siamo quasi equidistanti tra Ionio e Tirreno, con grosse differenze tra i vari versanti: nella zona più a est ad esempio si producono le clementine, mentre alle spalle abbiamo il Pollino, quindi foresta e mandorli. A sud c’è la Sila, mentre ad ovest ci sono i terreni più rocciosi verso il Tirreno. Noi siamo intorno ai 350-400 metri di altitudine. A valle coltiviamo merlot e magliocco, sul versante nord che è quello più calcareo c’è il riesling. Questa grande diversità è la vera ricchezza del territorio e ci permette un’ampia possibilità di scelta.”

Nel vostro mix tra vitigni internazionali e autoctoni, il magliocco la fa da padrone…
Fino ad una decina d’anni fa era misconosciuto, pur essendo il vitigno il più diffuso nell’area cosentina. La nostra varietà è il magliocco dolce, chiamato così per la forma del grappolo, molto delicata con acini più grossi rispetto a quelli classici dell’uva da vino. Ha un tannino spigoloso, che si può addolcire in vinificazione, non necessariamente con il legno, come per il nostro Terra Rossa che fa soltanto acciaio ed è gradevolissimo e morbido. Il magliocco sarà sicuramente il portabandiera della zona anche per i prossimi anni. Ogni azienda poi mette la propria firma sul metodo di produzione e sulle varietà: noi ad esempio non rinunceremo al riesling, per quanto possa sembrare azzardata come scelta. Cavalcare a tutti i costi la moda dell’autoctono non ha senso, ci sono vitigni che vale la pena di recuperare e altri che sono scomparsi con una ragione, magari perchè troppo difficili da coltivare.”

Come state affrontando la questione dei cambiamenti climatici?
“Sembra che si stia andando sempre di più verso una forte escursione termica a prescindere dalle stagioni. In questo senso abbiamo fatto grossi investimenti aziendali già da qualche anno, nell’ottica della sostenibilità e della durabilità, sia come scelte di vitigni che come tecnologie. Non facciamo irrigazione di supporto, perchè abbiamo vigne tutto sommato abbastanza vecchie, con radici che pescano in profondità. Abbiamo installato delle centraline meteo, che ci permettono di prevedere le precipitazioni con un buon margine di errore. Siamo biologici al 100% ma non usiamo zolfo e rame in quantità massicce, al massimo 3-4 interventi l’anno. Alla fine poi, per quante precauzioni si possano prendere, la natura vince sempre ed il dialogo con essa diventa fondamentale.”

Cosa vuol dire essere un’azienda biologica al 100%?
“In teoria saremmo anche biodinamici, perchè ricicliamo tutti gli scarti delle altre produzioni, tra cui anche quella degli ulivi, come compostabile o fertilizzante in vigna. Usiamo la tecnica del sovescio ed evitiamo di arare troppo, per non rischiare di uccidere i microrganismi presenti nel terreno. Lavoriamo tutto a mano, in modo quasi microscopico anche sugli interventi agricoli di base. Avere la certificazione biologica non significa soltanto pagare un ente certificatore: vanno fatti rilievi, analisi sui prodotti, sul compost che utilizziamo, sulle erbe che lasciamo crescere spontaneamente. L’azienda è certificata non soltanto in vigna, ma anche in cantina e nel frantoio, per cui è una certificazione a 360 °, ormai siamo biologici pure noi.”

Spesso il termine biologico viene associato al vino naturale…
“Non è corretto. Fare agricoltura biologica guidata dalla filosofia biodinamica non significa produrre vini cosiddetti naturali. Oltretutto il termine non è riconosciuto da nessun ente. Dal momento in cui c’è un intervento umano, non ha più senso parlare di “naturale”. Per noi l’importante è che il vigneto sia sano perché, come si dice sempre (anche se non sono del tutto d’accordo), il vino si fa in vigna: se in cantina arrivano uve buone e sane, tutto il resto viene da sé. Ci sono poi alcuni miti da sfatare sui vini naturali, come ad esempio l’assenza di solfiti. La solforosa non è il male assoluto, perché aggiungerla per evitare che il vino si guasti, che faccia male a livello alimentare, non è sbagliato.” 

Veniamo ai numeri della vostra azienda.
“Attualmente ci aggiriamo intorno alle 25-30mila bottiglie l’anno, con la prospettiva di raddoppiare le quantità nel prossimo futuro. Abbiamo 9 referenze, di cui una, il Riesling metodo classico Zoe che fa 60-70 mesi sui lieviti, non esce tutti gli anni. La linea classica comprende il Terra Rossa (Magliocco in purezza) e il Barone Bianco 100% riesling, oltre al rosato, che sono i nostri bestseller per rapporto qualità-prezzo. Le nicchie sono le riserve, come lo Zio Nunù, taglio bordolese “alla calabrese” che riposa 12 mesi in botte piccola e altri due anni in bottiglia, con produzioni più ridotte. Per quanto riguarda i mercati, negli ultimi 3-4 anni mi sono focalizzata sull’export, non perchè non si riuscisse a vendere il vino in Italia, ma perchè in termini molto concreti, è più facile all’estero farsi pagare. Sembrerò cinica, ma siamo un’azienda che deve fatturare. Ho trovato interlocutori molto più ricettivi e magari il rilancio della zona vitivinicola calabrese avverrà proprio grazie al mercato estero.”

L’ultimo arrivato in casa Pacelli è La Clara. Proviamo a raccontarlo.
“Abbiamo voluto fare una scelta un po’ più giovane, una bollicina da aperitivo, ma non per rincorrere la moda. In realtà era un’idea che avevamo in mente da tempo e abbiamo fatto tante prove, non solo per decidere l’uvaggio o il metodo, ma anche per il colore o per quanto dovesse stare in bottiglia, per non parlare dell’etichetta. La gestazione è stata lunga e si è conclusa, neanche a farlo apposta, proprio nel periodo del boom degli orange. Abbiamo scelto il trebbiano toscano perché ha una componente aromatica non troppo spiccata, data anche dall’età del vigneto (circa 50 anni). A quanto pare sta piacendo anche al mercato, quindi direi scelta azzeccata.”

Quali sono i motivi della scelta di far parte di FIVI?
“Con FIVI è stato amore a prima vista, al Salone del Gusto di Torino una decina d’anni fa. Mi sono avvicinata al loro banchetto incuriosita dal termine vignaioli indipendenti, che sentivo molto vicino alla nostra realtà. Laddove ormai la produzione è sempre più delegata a terzi, soprattutto per le aziende più grandi, e diventa impossibile avere un controllo diretto di tutta la filiera, far parte di FIVI è invece garanzia di una certa qualità. Per noi è sicuramente un vantaggio. In più ci piacciono la loro filosofia e il loro modo di fare cultura del vino.”

Quanto è importante l’aspetto della comunicazione per voi?
“Io sono giornalista e mia sorella si occupa di pubbliche relazioni e scrive anche lei di vino, per cui ci viene naturale fare un certo tipo di comunicazione, che non sia quella classica dell’ufficio stampa che invia comunicati sulla nuova annata in uscita. Vogliamo raccontare ciò che siamo, cioè una famiglia, anche se non di contadini di nascita o viticoltori da generazioni, che ha sposato questa idea e ci crede davvero. Per noi è fondamentale l’aspetto dell’enoturismo, invitare le persone a visitare la tenuta per vivere un’esperienza e conoscere il territorio, far vedere che c’è altro oltre la vita dell’ufficio e delle vacanze sul lettino sotto l’ombrellone. In questo gli stranieri sono molto più ricettivi, hanno una curiosità maggiore. Abbiamo un’idea forse un po’ più aperta e illuminata rispetto alla media che ci circonda, e non parlo soltanto della Calabria. Il nostro motto è vieni da noi e torni a casa col sorriso.”

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