
Storie di donne: Graziana Grassini
Non poteva mancare, in occasione della Giornata internazionale dei diritti della donna, il consueto appuntamento di oscarwine con le protagoniste femminili del mondo del vino. Quest’anno, la prima a raccontarci la sua storia è Graziana Grassini, toscana di Scarlino, uno dei volti più noti dell’enologia italiana. Consulente di prestigiose aziende vinicole, è stata membro del Comitato Nazionale Vini, svolge attività di docenza presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Pisa e dal 2019 fa parte del Comitato Scientifico di ONAV.
La prima parola che si legge aprendo il tuo sito è enologo. Lo decliniamo al maschile quindi?
“Sì, preferisco enologo, per sottolineare il mio percorso. Quando ho iniziato esisteva solo la figura dell’enotecnico, non c’era la facoltà di enologia. Ho fatto un percorso molto particolare per arrivare a questa professione. Mi piace evidenziare il fatto che il ruolo dell’enologo era prettamente maschile e sono stata una delle prime donne a praticarlo. Non mi interessa essere chiamata enologa perché sono donna. Per me il genere non dovrebbe avere un peso, uomo e donna sono uguali. Non mi sono mai posta il problema e credo che questo abbia contribuito al mio successo.”
Qual è stato il tuo percorso di avvicinamento al mondo del vino?
“Sono nata in campagna e ho vissuto in mezzo alla natura. I miei facevano vino, ma solo per l’uso di casa. Sin da piccola mi hanno abituata a mangiare pane, vino e zucchero. Certo facevano attenzione, ma non me lo hanno mai proibito. Andavo anche prendere qualche sorsetto dal nonno di nascosto. Mi è sempre piaciuto molto studiare, ma anche realizzare cose pratiche, tant’è che dovevo fare il liceo, ma all’ultimo momento ho deciso per chimica industriale, proprio perché sentivo l’esigenza di non fermarmi solo alla teoria delle cose. Durante la mia prima esperienza come stagista ho capito che non avrei mai potuto fare il dipendente e i lavori di routine. Dato che mi piaceva molto la chimica analitica, ho aperto un laboratorio di analisi agroalimentari, perché a Follonica, dove abito, c’erano tre caseifici. Invece di analizzare il latte però, sono finita ad analizzare il vino e mi sono resa conto che non ne capivo nulla, che chi veniva da me oltre a chiedere le analisi voleva suggerimenti su come stabilizzarlo, come farlo e anche migliorarlo. E quindi ho ricominciato a studiare mentre lavoravo, frequentando l’Istituto tecnico agrario con specializzazione in viticoltura ed enologia a Siena.”
Come sei passata dallo studio alla pratica?
“Una volta diplomata, sono stata invitata da un mio ex insegnante ad aiutarlo nella libera professione. Successivamente mi sono candidata, unica donna, a consigliere per l’associazione enotecnici (l’attuale Assoenologi) della sezione Toscana. Il presidente era Giacomo Tachis e con lui è iniziato un bellissimo rapporto di stima e amicizia che ci ha portato a collaborare insieme. Una volta terminati gli studi come enotecnico, mi sono iscritta a biologia a Pisa e mi sono laureata con una tesi sulla genetica del lievito, con il professor Polsinelli e il professor Barale. Nel frattempo è stata riconosciuta la figura dell’enologo e ho acquisito il titolo.”
Parliamo del tuo rapporto con Giacomo Tachis. Quali sono stati i suoi insegnamenti, le cose che ti porti ancora dietro?
“Era una persona stupenda, dal punto di vista della cultura, della conoscenza del vino e della serietà. Una figura dal carattere forte, un po’ come mio padre, che mi ha dato l’educazione e gli insegnamenti di cui ho fatto tesoro, senza mai parlare più di tanto: bastava uno sguardo. Questo l’ho ritrovato anche in Tachis, uomo di pochissime parole. Anche con gli occhi, con il solo muovere le rughe della fronte e il suo ciuffo bianco mi faceva capire se stavo andando nella giusta direzione. In più mi ha sempre spinto ad essere una donna libera, dalle pressioni esterne e nelle scelte. Si arrabbiava spesso, dovevo rigare dritta, e questo mi ha dato molta disciplina. Devo ringraziare anche un’altra persona, che non fa parte del mondo del vino, che mi ha fatto da padre professionale, l’Ing. Antonio Trivella. Lui e Giacomo Tachis sono stati i miei pilastri, insieme a mio padre che non mi ha mai fatto pensare il fatto di essere donna. Mi ha sempre cresciuta alla pari, senza porre limiti, libera anche nel pensiero.”
A proposito di questo, nel tuo lavoro hai mai incontrato ostacoli o pregiudizi in quanto donna?
“Devo dire di no. Mi è stata fatta pesare molto di più la mia provenienza dal mare, da una zona tradizionalmente non vocata. In quanto donna e soprattutto giovane, nessuno mi ha mai detto nulla. Quando sono stata proposta al Castello del Terriccio, Rossi di Medelana mi ha accolta senza problemi, senza dare peso a queste cose, lasciandomi muovere liberamente, senza paure. Non è mai successo che qualcuno mi dicesse no in quanto donna. Probabilmente alcune aziende non mi hanno scelta, ma non l’ho mai saputo e non mi interessa.”
Si parla spesso di approccio femminile al mondo del vino. Secondo te esiste?
“Secondo me sì. Siamo diverse nel sentimento, nell’emotività. Noi donne abbiamo uno spirito materno, tanto è vero che i vini che faccio li considero come figli. Abbiamo proprio composizioni diverse in ormoni e quindi è logico che l’approccio sia differente, anche nei confronti del vino. La percezione degli odori, dei sapori è diversa. Non c’è niente da fare, questo dice la scienza. Che questo poi si manifesti in modo incisivo e chiaro, dipende da tanti fattori. Per me è fondamentale lavorare in team, uomini e donne insieme. Consente di mitigare questi aspetti e ognuno può portare qualcosa di diverso.”
Come è cambiato il tuo lavoro nel corso degli anni?
“Ho iniziato quando c’era il Capsula Viola, il vino bianco carta. Mi sono diplomata l’anno dello scandalo del metanolo, quando la qualità dei vini in Italia era proprio ai limiti. Sono stata spettatrice dei cambiamenti del gusto e ho visto che il consumatore si annoia facilmente a mangiare e bere sempre le stesse cose. C’è sempre l’esigenza di cambiare. Dai bianchi pallidi si è passati ai colori più pesanti di oggi; dal rosso tannico, corposo, molto colorato a quello fine ed elegante. Dai vini tecnologici, fino a quelli cosiddetti naturali. Bisogna sapersi adattare velocemente.”
Come vedi questa contrapposizione tra la tecnologia e il movimento dei vini naturali?
“Quando è iniziato questo movimento ho cercato di capire, ho assaggiato i vini e mi sono fatta un’idea. Partendo dal presupposto che il vino naturale di per sè non esiste, credo che molto del successo dipenda dal fatto che il consumatore si stanca facilmente e quindi il produttore ha bisogno di venire incontro alle esigenze del mercato, perché altrimenti non si è più interessanti. Se prima si facevano vini più tecnologici cercando la perfezione, ora si va all’estremo opposto, quindi si accettano le imperfezioni e anche certi difetti. Ce n’è per tutti i gusti, ovviamente. Con il tempo il consumatore si è educato, facendo corsi, mangiando bene, scoprendo odori e sapori. Si è ascoltato di più e ha capito che mangiando e bevendo si possono avere emozioni bellissime. Queste emozioni si trasmettono cercando di far sentire l’uva per come è. Il vino deve essere lo specchio dell’uva e viceversa. Snaturando i vini senza cognizione di causa con l’uso indiscriminato della tecnologia o al contrario non intervenendo anche quando necessario, non si fa un favore a nessuno.”
Com’è il tuo rapporto con la Toscana?
“La Toscana è la mia terra, quindi è logico che la conosca meglio, lavorandoci da tanti anni. La Maremma, Bolgheri, sono posti stupendi che adoro. Ho iniziato con i vini bianchi al Castello del Terriccio, in un momento in cui la Toscana era rinomata per i rossi. Sono contenta di essere riuscita, insieme a Rossi di Medelana, a fare qualcosa di bello sui vini bianchi, e di aver portato questa esperienza anche in altre realtà. Ho vissuto il momento di passaggio da trebbiano a vermentino e l’esplosione dell’interesse per questo territorio. Mi ha emozionato vedere nel 2001 Angelo Gaja che scriveva su Ca’ Marcanda: Bolgheri, Maremma, Italia. Con il tempo però mi sono affezionata anche ad altre zone, mi piace scoprire i territori, le abitudini, legare i cibi al vino. Ogni regione ha le sue sfaccettature di cui ti puoi innamorare. Mi piace avere questo tipo di approccio, lavorare anche fuori dalla mia regione per conoscere meglio ciò che ogni vitigno può portare. Se ti focalizzi su un solo territorio non ti arricchisci.”
Cosa ti emoziona ancora nel mondo del vino?
“Bella domanda. Mi emoziona il fatto che il vino sia costantemente in movimento, come me, che ho l’esigenza di fare cose sempre diverse. Ho imparato ad ascoltare il vino e so che emoziona a prescindere, bello o brutto che sia. Se lo ascolti, sa comunicare tantissimo. Credo che non mi stancherà mai. Ogni anno, il clima è diverso e le uve sono diverse, per cui tutto ciò che si affronta nel processo di trasformazione è diverso. Non ho mai visto un anno uguale all’altro, le problematiche non si ripetono mai, e questo per me è affascinante. Cerco molto la parte emozionale, mi piace riuscire a far comunicare qualcosa anche al vino più semplice.”
Quale consiglio daresti a una giovane donna che vuole avvicinarsi alla tua professione?
“Le direi che ciò che ha studiato fino a quel punto non è sufficiente e quindi deve porsi nei confronti del vino e della vigna in modo umile. Ascoltarsi, ascoltare l’uva e ascoltare il vino, perché si deve essere in grado di percepire ciò che ti dicono. Questo si può fare se ti approcci con umiltà, essendo cosciente che non sai tutto solo perché hai fatto un percorso accademico. Spesso chi ha studiato pensa di saper fare ogni cosa, ma non è così. Quindi il mio suggerimento è quello di cercare di apprendere sempre cose nuove, come Tachis diceva a me. Io studio ancora, non mi sono fermata e non mi fermerò mai.”