Sfusobuono, il vino in box artigianale e sostenibile

Il mondo del vino, specialmente in Italia, è ancora legato ad una serie di tradizioni e abitudini (spesso anche di luoghi comuni) a cui è difficile rinunciare. Pensiamo ad esempio alla rivoluzione del tappo a vite e a quanta resistenza stia incontrando nel nostro Paese, nonostante i suoi vantaggi siano ormai ampiamente riconosciuti.

E se parlassimo di vino sfuso in cartone, o per meglio dire di “bag-in-box” (tecnicamente una sacca in materiale plastico poliaccoppiato inserita all’interno di un contenitore di cartone), che risposte avremmo dai consumatori e dagli addetti ai lavori? Quali sarebbero i luoghi comuni più difficili da sfatare? Abbiamo posto queste e altre domande ad Alessandra Costa, fondatrice di Sfusobuono, il primo negozio online in Italia specializzato in bag-in-box di vini provenienti da produttori artigianali.

ALESSANDRA COSTA

Qual è stata la tua formazione?
“Mi sono avvicinata al mondo del vino durante gli anni dell’università a Milano (sono laureata in Filosofia) e ho deciso di fare prima il corso da sommelier Ais e poi di studiare Scienze e culture gastronomiche a Pollenzo. Lì ho incontrato una realtà diversa rispetto a quella più tradizionale che avevo visto in Ais. Vivere nel bel mezzo delle Langhe mi ha permesso di girare molto e di approfondire la conoscenza di questo mondo entrando in contatto con diverse cantine e produttori. Dopo gli studi, ho lavorato quattro anni per una piattaforma e-commerce di vino.”

Come nasce Sfusobuono?
“Tutto è partito da una telefonata che ho ricevuto da Enrico Cauda di Cascina Fornace all’inizio del lockdown nel 2020. Come tutti, anche lui aveva la cantina piena di vino, con l’export bloccato e le vendite praticamente a zero. Voleva da me un consiglio su come vendere del vino sfuso di qualità senza deprezzarlo troppo. Facendo delle ricerche mi sono resa conto che non c’era nessuno in Italia che facesse un lavoro di questo tipo, a parte le grosse cantine sociali che mettevano le bag-in-box nel loro shop online insieme alle classiche bottiglie. C’era un vuoto nel mercato e ho cercato di colmarlo, forte anche della precedente esperienza nell’e-commerce. Dall’idea alla realizzazione pratica sono passati pochi mesi e nel novembre del 2020 siamo andati online.”

L’ostacolo più grande che hai affrontato in questo percorso?
“La sfida più grande è stata, e in parte lo è ancora, smontare il pregiudizio sul vino in box da parte delle cantine. Soprattutto i piccoli produttori “naturali” o i vignaioli indipendenti, che hanno fatto grandi sforzi per mettere in bottiglia il loro vino, spesso vedono questa opportunità come un passo indietro. All’inizio ho ricevuto tantissimi no, poi molti si sono resi conto che per loro poteva diventare una vetrina dove essere raccontati e raccontare un vino diverso. Ha fatto tanto anche il passaparola: quando sono entrati alcuni produttori di nome come Carussin o Cirelli, la curosità da parte degli altri è aumentata.”

Per un produttore non è un passo indietro rispetto ad una bottiglia con la propria etichetta?
“Stiamo parliamo di masse che le aziende stesse non vorrebbero imbottigliare e che spesso vendono come vino sfuso alle cooperative o alle cantine sociali. Noi andiamo in qualche modo a nobilitare questa massa, che altrimenti verrebbe venduta senza il loro nome. Il consumatore non ama le private label in generale, quindi abbiamo scelto di fare sì un packaging personalizzato, ma tenendo sempre il nome della cantina in evidenza, presentandoci come un e-commerce di selezionatori e non come produttori diretti.”

Quali altri pregiudizi ci sono verso le bag-in-box?
“Il pregiudizio del pubblico non è tanto verso il contenuto quanto sul contenitore. Abbiamo una grande tradizione alle spalle di bottiglie di vetro, spesso anche pesanti, e di tappi in sughero. Il fatto che ci siano un cartone e una sacca viene considerato da molti una perdita di romanticismo. Tante persone, soprattutto nella fascia di età un po’ più alta, non sono proprio disposte nemmeno a provare, non hanno curiosità.”

Quali vini possono essere messi in una bag-in-box? Esistono limitazioni tecniche?
“Io sono grande fan delle bollicine, ma a livello tecnico il packaging purtroppo non consente di gestire gli spumanti. Per i vini da lungo invecchiamento il discorso è diverso, legato principalmente al marketing: non avrebbe senso commercializzarli in bag-in-box, anche perchè molti disciplinari non consentono di chiamarli con il loro nome commerciale (ad esempio Barolo o Barbaresco) con questo confezionamento. La scelta a monte è stata quella di puntare sui vini d’annata, per rispondere alle richieste del pubblico. Vini quotidiani e semplici, ma di qualità.”

Trovi giusta questa tendenza del pubblico verso i vini d’annata a prescindere?
“Sulle bag-in-box non la vedo così sbagliata. Poi sono io la prima ad attendere qualche mese prima di acquistare dai produttori: ad esempio i vini bianchi li prendo sempre dopo la primavera e non a fine anno quando le grandi cantine escono con le nuove annate in bottiglia. È una scelta sia di marketing che tecnica, per garantire maggiore stabilità del vino nella sacca.”

Quali sono i criteri per la scelta delle cantine e dei vini?
“La prima scelta è stata quella di lavorare con viticoltori diretti, che non acquistano uva da altri. Per questo motivo abbiamo sviluppato un rapporto privilegiato con il mondo dei vignaioli FIVI. Guardiamo con curiosità anche al mondo del vino naturale e lavoriamo con alcuni produttori, ma non nego che per la stabilità del packaging un po’ di tecnicismo serve, nel senso che ad esempio un vino completamente non filtrato potrebbe dare problemi di servizio nella bag a causa del fondo. Per quanto riguarda i prodotti, come dicevo prima abbiamo puntato su vini quotidiani ma che nobilitino il vitigno, privilegiando i monovarietali ma non disdegnando gli assemblaggi se fanno parte della tradizione del vino sfuso del territorio. Siamo partiti dalla mia terra d’origine, il Piemonte, e poi siamo andati alla ricerca di produttori nel resto d’Italia.”

La vostra comunicazione è focalizzata sulla sostenibilità…
“Parlare di sostenibilità, almeno in Italia, è ancora difficile. Trovo che non ci sia molta apertura da parte del pubblico medio, che rimane fedele alla bottiglia di vetro convinto che sia un packaging riciclabile e sostenibile. Non ci si pone però la domanda sul peso di una bottiglia. Spesso mi trovo in difficoltà a far passare il concetto che una bag-in-box, pur avendo all’interno una sacca di materiale plastico, è più sostenibile perché pesa meno, quindi si va a risparmiare tantissimo in termini di emissioni di CO2, soprattutto nella fase di trasporto. I clienti italiani scelgono Sfusobuono per la comodità e per il rapporto qualità-prezzo, mentre all’estero sono più attenti all’impatto ambientale. Sono stata contattata ad esempio dal monopolio Nord Europa e lavoriamo anche con alcuni locali a Berlino: in questi casi non mi chiedono che vini abbiamo o che tipo di cantine selezioniamo, ma mi cercano per il packaging, per la questione delle emissioni di CO2 da ridurre.”

Quanto lavorate con l’estero? Avete concorrenti fuori dall’Italia?
“Al momento siamo solo due persone nel team e non è facile organizzare un export fatto bene, sia per la gestione della logistica che per il fatto che non siamo produttori diretti e ci sono questioni burocratiche complesse da gestire. Per ora stiamo lavorando in Germania e in Francia e abbiamo fatto pochi giorni fa una prima spedizione in California. In Italia non c’è ancora nessuno a parte noi, mentre nel Nord Europa sono molto più avanti: solo in UK ci sono quattro aziende che vendono bag-in-box e propongono anche monoporzioni e vino in lattina. In realtà molti di questi e-commerce esteri non vanno alla ricerca dell’artigianalità come facciamo noi, ma si riforniscono da grandi cantine del nostro Paese, puntando sull’effetto italian sounding.” 

Qual è il vostro target di riferimento?
“Quando ho iniziato ero convinta di andare verso un pubblico molto giovane, ed invece la fascia di età con cui lavoriamo meglio è quella 35-50. Appena si va oltre, c’è ritrosia verso una bag-in-box che costa così tanto, perchè si ha l’abitudine di andare ad acquistare alla cantina sociale vicino casa e non c’è grande interesse verso l’estetica del packaging o il discorso ambientale. Sotto i 25 anni il vino ha invece poco appeal in generale, si preferiscono i cocktail. A livello geografico, a parte i grandi centri urbani come Milano e Roma, sono rimasta sorpresa dalle ottime risposte che abbiamo avuto in Toscana e in Abruzzo, mentre in Veneto facciamo molta fatica: bevono tanto, ma bevono localmente. Stiamo iniziando a fare qualcosa anche al Sud ma molto lentamente, non c’è continuità, anche come ingressi di nuove cantine. Il fattore logistico in questo caso è determinante.”

Dove si beve Sfusobuono?
“Tendenzialmente a casa. Abbiamo studiato il formato 3 Litri proprio perché volevamo arrivare nelle case: ci sta perfettamente nella porta del frigorifero. Poi feste, grigliate all’aperto, eventi conviviali in genere. A giugno abbiamo lavorato bene con i festival, perché stanno vietando l’utilizzo di vetro all’esterno e quindi la bag-in-box può essere una soluzione alternativa, anche per la comodità dello smaltimento. I ristoranti non sono il nostro target: chi compra sfuso predilige ancora le damigiane e non si preoccupa molto della qualità. Non vogliamo essere quel contenitore che si tiene sotto il bancone e da cui si spilla di nascosto. Ci piacerebbe invece lavorare in futuro con la GDO, ma non siamo ancora strutturati per garantire quei numeri.”

Parliamo di costi…
“Sfusobuono propone prodotti di fascia medio-alta, anche come posizionamento di prezzo, perché deve rispondere a costi elevati a monte. Spesso acquistiamo vini a prezzi che per lo sfuso non erano concepibili fino a pochi anni fa, ma ci siamo resi conto che è l’unica garanzia per avere vini artigianali di qualità e mantenere rapporti duraturi con i produttori. Se però si fa il paragone tra la bottiglia singola e il nostro 3 Litri (l’equivalente di 4 bottiglie), c’è comunque un risparmio, che ritroviamo anche nel packaging, perché ci sono meno costi di tappo e di bottiglia. Stiamo cercando di abbattere il più possibile tutte le spese accessorie come le spedizioni, facendo ordini più mirati. Altra voce molto importante è quella dello stoccaggio: siamo partiti con un magazzino in provincia di Alessandria, che però non ci permetteva di servire le grandi città in 24 ore, per cui da un anno ci siamo spostati alle porte di Milano.”

Progetti per il futuro?
“Vorremmo diventare il punto di riferimento dello sfuso online. Ora abbiamo una sessantina di etichette, che già è un buon numero se si pensa che andiamo a cercare sempre piccoli produttori e seguiamo tutta la filiera, dal confezionamento alla spedizione. Si potrebbe arrivare intorno al centinaio, ma più che il numero ci interessa andare a coprire le zone e i vitigni mancanti: ad esempio in Veneto non abbiamo ancora nessuno. Ci piacerebbe anche esplorare altre alternative di packaging che abbiano lo stesso livello di sostenibilità, magari ampliando l’offerta con una bollicina in lattina. Più che un progetto, un sogno nel cassetto è quello magari un domani di chiudere il cerchio con un mio vino, a patto di poter seguire tutte le fasi di produzione.”

Per chiudere, non può mancare la classica domanda sul vino del cuore…
“Il mio vitigno del cuore è sicuramente la barbera. Sono piemontese del Monferrato e ho questo ricordo di mio padre che aveva sempre un bottiglione di barbera sotto il lavandino della cucina. Ricordo anche le litigate infinite sulla temperatura di conservazione quel vino. Quando durante il lockdown ho ordinato il vino da Carussin per le prime bag-in-box, ho assaggiato il suo Asinoi con mio padre: è stato un bel confronto generazionale, che mi è servito anche per capire come conciliare la scelta dei vini artigianali di qualità con il gusto dei potenziali clienti di Sfusobuono.”

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