Parusso, innovazione e modernità nel Barolo

Siamo a Monforte d’Alba, nel cuore di un territorio, quello del Barolo, considerato tra i più “esclusivi” della viticoltura italiana e non solo. Grazie all’opera di personaggi visionari come Marco Parusso oggi questo angolo di Piemonte racconta anche storie che si discostano dalla tradizione, legate a filosofie di produzione innovative. In questa lunga chiacchierata abbiamo scoperto l’evoluzione della cantina di famiglia e la sua idea di vino.

La storia della famiglia
“La nostra era una famiglia contadina: mio padre faceva l’allevatore e mio nonno aveva circa un ettaro di terra con una parte di vigna, ma l’uva veniva conferita alla cantina sociale. Ai tempi la nostra era una zona molto povera, quasi disperata, quindi i giovani scappavano tutti, le vigne erano selvatiche e difficili da lavorare, per cui si vendeva solo sfuso. Il Barolo non aveva assolutamente mercato negli anni ’80, basti pensare che l’uva dolcetto valeva il doppio del nebbiolo. Io sono il più giovane di tre fratelli e l’unico che ha fatto la scuola enologica, mentre gli altri due già lavoravano in altri ambiti, ma non ero appassionato, non bevevo vino, anche perché trovare prodotti buoni era veramente difficile in quegli anni.”

Gli inizi
“Mio fratello mi ha fatto conoscere Alfredo Roagna e Domenico Clerico, che mi hanno trasmesso la voglia di iniziare a fare vino. Mio padre è morto a 64 anni, provato dalla fatica del lavoro fisico. Forse anche per questo ho accettato questa sfida e subito dopo si è unita anche mia sorella. Nel 1986 appena mi sono diplomato, grazie agli input di Domenico e di un amico dottore svizzero che mi ha fatto viaggiare molto con lui, soprattutto verso la Borgogna, ho deciso di intraprendere una mia strada legata al concetto di fare prodotti molto “nostri”, cioè legati alla terra e al nostro modo di pensare l’alimento vino. Il primo anno ho diviso le zone e sono nati il Barolo Mariondino e il Barolo Bussia Vigna Rocche. Abbiamo iniziato con numeri piccolissimi, meno di 10mila bottiglie.”

La rinascita del Barolo
“All’inizio c’è stato un grande lavoro di ricerca e un aiuto importante arrivato da Slow Food, che in quegli anni è diventata la voce dei piccoli contadini, e poi da Marco De Grazia con i Barolo Boys, che ha fatto opera di comunicazione per i produttori, soprattutto negli Stati Uniti, perchè prima l’Italia del vino, e il Piemonte in particolare, era in mano solo agli imbottigliatori. Nel 1986 c’è stato lo scandalo del metanolo, un evento tragico che però ha segnato anche la nascita di un nuovo percorso, perché l’imbottigliatore non poteva garantire tutta la filiera, mentre noi viticoltori ci mettevamo la nostra faccia, quindi una garanzia in più. Verso la fine degli anni ’80 è nato un movimento importante, che si chiama Langa In. Io ero il più giovane di questo gruppo di una ventina di piccoli produttori, tra i quali c’erano Domenico Clerico, Spinetta, Conterno Fantino, Enrico Scavino, Azelia ed Elio Grasso. Si andava insieme a Vinitaly e agli altri eventi, ci si faceva conoscere sul mercato, ci si confrontava e si cresceva insieme.”

L’evoluzione
“Si è creato un movimento forte che ha trascinato tanti giovani: qualcuno aveva ereditato i terreni dai genitori, altri sono arrivati da fuori e c’è stato grande fermento. Basti pensare che a Monforte negli anni ’80 c’erano forse 20 produttori, mentre oggi siamo oltre 50, in un comune che fa 2.000 abitanti. Significa che si è allargata la base e l’ambizione dei piccoli produttori, cioè quella di creare vini personalizzati e far parlare un territorio, ha portato una crescita fortissima in tutta la zona del Barolo e di conseguenza del Barbaresco, per continuare poi nel Roero grazie soprattutto all’opera del compianto Matteo Correggia. A ruota sono arrivate tante altre zone d’Italia, a partire dall’Etna e dalle zone dell’Aglianico o altre in cui c’erano pochi produttori ed era tutto in mano a trasformatori e imbottigliatori. Tutto questo ha portato un’evoluzione enorme della qualità in generale nel mondo del vino.”

L’idea dei “Cru”
“La qualità di un alimento è legata essenzialmente a dove vive, quindi la terra fa la differenza, che si tratti di frutta, verdura, latte o carne. La nostra è una una zona con tantissime differenze in pochissimo spazio, perché abbiamo queste lingue di terra in cui cambiano rapidamente l’esposizione, l’altitudine, il tipo di terreno che si è mescolato nei millenni. Con un portavoce importante come il nebbiolo, un vitigno difficile che io definisco un purosangue, non è semplice trovare un buon compromesso. Bisogna saperlo adattare e gestire. Al principio avevamo delle vigne squilibrate, perché erano state trattate e nutrite tutte allo stesso modo, quindi abbiamo iniziato con una “dieta”, non facendo apporto per portare le piante a regime. Il lavoro successivo è stato quello di diversificare, quindi fare delle nutrizioni personalizzate, zona per zona.”

La dieta delle piante
“Le nostre colline sono ripide e quando l’acqua ha dilavato l’ha fatto dall’alto in basso, quindi ci troviamo con fasce più grasse ed altre più magre. La viticoltura è però in orizzontale, per cui negli stessi filari ci sono zone grasse, che abbiamo nutrito sostanzialmente con minerali, e zone magre, alle quali bisogna apportare sostanza organica. Allo stesso modo abbiamo diversificato le potature, per far sfogare i grassi e preservare i magri tenendoli più corti. L’obiettivo era quello di avere una diversificazione equilibrata, perché ogni zona deve portare il proprio messaggio di terreno e microclima. Questo della dinamicità è un concetto che oggi sembra banale, ma quando abbiamo iniziato era quasi rivoluzionario.”

La chimica in vigna
“Fin dall’inizio abbiamo cercato di non usare chimica, o meglio di fare prevenzione e nel caso di farsi aiutare dalla chimica, per esempio nella gestione delle malattie fungine. Non usiamo diserbi, ma seminiamo delle diversità per creare delle erbe che vadano in concorrenza con quelle più selvatiche e soprattutto con le piante, in modo da stimolarle a sviluppare apparati radicali più profondi. Tutto questo porta a una maggiore dinamicità della pianta, che si adatta meglio ai cambiamenti climatici.”

Le tecniche di lavorazione
“La grande evoluzione a partire dagli anni ’90 è stata nella tecnologia di vinificazione. Il nostro gruppo è quello che ha inventato il rotomaceratore, che consente di mescolare la parte liquida e quella solida dei vini rossi effettuando fermentazioni e macerazioni con temperature molto più controllate, ma soprattutto più basse. Questo vuol dire maggiore finezza, fare estrazioni a freddo e fermentazioni a bassa temperatura con le quali si hanno profumi non usuali, come le note più agrumate o di frutto rosso. Ma soprattutto si ha una percezione molto minore dell’alcol, perché fermentando a basse temperature rimane più fruttato e dolce sia al naso, quindi meno pungente, che in bocca, lasciandola meno asciutta.”

Il vino naturale
“Siamo in un momento particolare, con le nuove generazioni che stanno tornando verso un modo di lavorare “antico”. La differenza però è che i nostri avi lavoravano per cercare di migliorarsi e di andare avanti. Questa tendenza al retrò, ai sistemi antichi di vinificazione mi sembra masochistica. Io sono nato con le vasche in cemento, quando in cantina non avevamo niente, nelle vigne si faceva poco perché non avevamo né le possibilità, né la conoscenza e quindi il vino era quello che era. Il concetto di vino naturale oggi viene un po’ frainteso, viene esaltato il non toccare e il non fare. Però se un animale, una pianta, un figlio non vengono gestiti tutto diventa selvatico, senza regole e senza equilibrio. In natura non c’è il vino, c’è l’aceto, quindi avere una vigna vuol dire gestirla. Vuol dire trovare un compromesso, equilibrarla con le potature, con le diete e ovviamente c’è di mezzo il lavoro dell’uomo. Se un vino non lo curi e non lo segui, diventa un vino naturale, nel senso che è un vino che può avere dei difetti.”

Il mondo del vino oggi
“Se utilizziamo la tecnologia per fare un prodotto più ricco ma più fine, più elegante, più leggero, ben venga. Negli ultimi anni c’è questa tendenza al leggero, perché sembra che le cose meno pesanti si consumino più velocemente, dando meno fastidio. Non confondiamo però leggero con vuoto. Se hai un vino con tante notizie, tanta nobiltà e l’hai reso fine è una cosa, se invece hai un prodotto con poche notizie perché hai lasciato tanta uva, non l’hai fatta maturare bene, rimane un prodotto vuoto ed è un tipo di leggerezza che non amo. Il mercato è in movimento, la comunicazione è cambiata e oggi la gente compra molto di più con le orecchie e con gli occhi e meno col gusto. Negli anni ’80 la nostra rivoluzione era fare un vino buono e riuscire a comunicarlo nel modo giusto. Allora il Barolo non si beveva perché veniva visto come il “vino dei re” e dovevi aspettarlo perché diventasse buono, solo che a furia di aspettare non lo beveva nessuno. Io vorrei solo che il consumatore tornasse ad assaggiare con la propria bocca e il proprio naso.”

Per l’approfondimento e la degustazione dei vini di Parusso, vi rimandiamo alla prossima puntata.

Visited 1 times, 1 visit(s) today