Nugnes: famiglia, tecnologia e vini autoctoni

Nel caso vi troviate a Mondragone, deviando verso l’entroterra potreste arrivare in appena 20 minuti a Carinola, dove sorge l’azienda vinicola Nugnes. Si tratta di una cantina giovane, nemmeno ventenne, nata da una tradizione di viticoltori: nonno Orlando, papà Antonio e suo figlio Orlando, responsabile della struttura.

Abbiamo incontrato Orlando II per parlare di questa realtà locale, che ha scelto di puntare su vitigni autoctoni: aglianico, primitivo e piedirosso per i rossi e falanghina, coda di volpe e greco di tufo per i bianchi.

Orlando, come nasce la vostra cantina?
Sulla carta d’identità si legge 2002 ma se guardiamo alla sola produzione di uve, la nostra storia parte da molto più lontano. La nostra azienda nasce sui terreni di mio nonno che era coltivatore di uve, fornitore, non produttore; quando morì, io e mio padre ci trovammo di fronte a un bivio, vendere tutto o continuare l’attività. Prendemmo la seconda strada ma, consapevoli del grande potenziale di queste uve, molto richieste dalle cantine, decidemmo di passare alla produzione, fondando una nostra azienda, edificata su tecnologie all’avanguardia.

Un bel salto…
Sì ma non è stata una scelta avventata. Ci siamo affidati ad alcuni dei migliori enologi ed agronomi nazionali che ci hanno confermato la bontà di questa decisione. Sapevamo che le uve di nonno erano molto ricercate e questi professionisti ci hanno spiegato che era per via della loro grande qualità.

A cosa si deve questa situazione?
Al terreno. Le vigne si estendono dal mere fino alle pendici del Monte Massico, un massiccio calcareo che ci protegge dai venti freddi del nord: abbiamo estati calde e asciutte e inverni piovosi ma mai freddi. Poi, ci troviamo nella zona del vulcano di Roccamonfina, grazie al quale i nostri vini hanno mineralità e sapidità importanti.

Indubbiamente, aver scelto uve locali vi ha ulteriormente avvantaggiati…
Ci sono aziende che puntano a vitigni internazionali ma se hai la fortuna di vivere in una terra dove i vigneti autoctoni danno grandi rese di qualità e sono perfettamente adattati al clima, perché puntare ad altro? Sono da sempre dell’idea che nel nostro paese dovremmo puntare principalmente a produrre quello che ci da la terra e, in un secondo momento, a valutare altro.

Parliamo del piedirosso, un uva da taglio. Secondo lei questo vitigno potrebbe essere vinificato in purezza?
E’ una grande varietà ma da sola non è particolarmente gradevole e si preferisce utilizzarla per produrre aglianico. In alcune annate, vi garantisco che potrei farne dei vini in purezza ma la qualità non è costante e sono mutevoli anche le sue caratteristiche, ad eccezione dei profumi, motivo per il quale la uso sempre come spalla per l’aglianico.”

Veniamo al principe rosso del territorio. Il vostro Aglianico che differenze ha rispetto a vini prodotti in altre località con lo stesso uvaggio?
Gli aglianici tradizionali sono un poco astringenti, “allappano”. Noi usiamo botti di rovere francese e americano, facciamo in modo che il tannino sia morbido, elegante, non fastidioso rispetto ai prodotti tradizionali lontani dai gusti del mercato.

A proposito di mercato, parliamo di rosato.
Per noi è un prodotto di nicchia, ne facciamo appena 1200 bottiglie. In alcune parti d’Italia e d’Europa piace il rosato ma altrove è una moda. Preferisco tenermi su poche bottiglie di qualità per i veri appassionati.

Immancabile la domanda sulla pandemia. Come si affronta?
Domanda da un milione di dollari. Bisogna sperare di passare indenni dalla seconda tormenta che molti prospettano. Speriamo non arrivi perché danneggerebbe i piccoli produttori, che non hanno la forza economica né sono strutturati per poter fare prezzi stracciati o usare canali a cui solo le grandi realtà possono accedere. Le formule magiche non esistono, il grosso mercato è fatto dalla ristorazione e dagli alberghi, dalla vita quotidiana che viene meno con il Covid e uccide il mercato.

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