Masùt da Rive, vini friulani da quattro generazioni
Mariano del Friuli, località goriziana della valle dell’Isonzo, è conosciuta soprattutto per la produzione artigianale di sedie e per aver dato i natali a Dino Zoff, iconica figura del calcio italiano e capitano della nazionale campione del mondo nell’82. A tenere alto il nome di questo comune contribuisce anche Masùt da Rive, azienda vinicola condotta dalla famiglia Gallo da quattro generazioni. Fabrizio Gallo, oggi titolare della cantina insieme al fratello Marco, racconta a oscarwine la loro storia.
Partiamo dall’inizio…
“Un tempo le aziende agricole erano promiscue: insieme alle coltivazioni e all’allevamento, si produceva anche vino. Mio nonno, così come suo padre, faceva già un bianco da uve tocai e malvasia e un rosso da merlot e cabernet franc, che venivano venduti sfusi nelle classiche “private” (si apriva due volte l’anno e si vendeva il vino direttamente in cantina). L’imbottigliamento vero e proprio è iniziato nel 1979, quando mio padre, che ha sempre avuto la passione per la viticoltura, ha preso in carico l’azienda, che è diventata “Gallo Silvano“. Nel 1987 ha deciso di chiudere la stalla trasformandola in cantina e si è concentrato sulla produzione di vini monovarietali di qualità, spostandosi dai rossi come il Cabernet verso i bianchi tipici del territorio e iniziando a piantare anche varietà internazionali.”
Quando nasce Masùt da Rive?
“Finiti gli studi, nel 1993 ho preso in mano la conduzione enologica dell’azienda e la trasformazione in Masùt da Rive è dell’anno successivo. Il nome Gallo nel mondo enologico è legato indissolubilmente alla nota azienda californiana e per distinguerci sul mercato abbiamo scelto il soprannome con cui siamo da sempre conosciuti in zona: Masùt (diminutivo di Tommaso) in friulano è sinonimo del nostro cognome, mentre “da Rive” indica il fatto che abitavamo all’inizio di una strada in salita. L’azienda è nata all’insegna di una nuova filosofia: acquistata la tecnologia per la vinificazione, sono state modificate le lavorazioni in vigna, abbandonando i vecchi sistemi come Cappuccina e Sylvoz, infittendo dove possibile o convertendo le coltivazioni in Guyot unilaterale, puntando sulla qualità delle uve: rese più basse e grande selezione in potatura, per arrivare con l’uva pronta per le lavorazioni in cantina.”
Come lavorate oggi e come sono divisi i compiti in azienda?
“Io seguo soprattutto la parte amministrativa e commerciale, mio fratello Marco si occupa della parte agronomica e Mattia, un ragazzo che lavora con noi da circa 4 anni, gestisce la cantina. Raccogliamo sempre tutto a mano nelle prime ore del mattino, diraspiamo con un macchinario che fa selezione degli acini senza romperli e abbattiamo la temperatura. Una volta caricata in pressa, l’uva trascorre lì tutta la notte in breve macerazione pellicolare a temperatura controllata e il giorno dopo si fa la pressatura soffice. Il mosto si lascia decantare per alcuni giorni in serbatoi termocondizionati e si passa poi alla fermentazione alcolica, gestita con lieviti selezionati.”
Parliamo del territorio e della produzione.
“La valle dell’Isonzo divide in due il nostro territorio. La riva destra presenta un terreno argilloso, limoso e sabbioso, più freddo e meno vocato alla viticoltura. Le “Rive Alte” a nord, dove ci troviamo noi, hanno invece una conformazione con un terreno di medio impasto, formato da argille e dal riporto delle terre rosse carsiche, ricco di ioni ferrosi con ghiaia sul fondo. Questo fa sì che i terreni siano produttivi e con poca umidità, perchè drenano l’acqua in profondità. Attualmente abbiamo circa 30 ettari di vigneti, per il 65% con vitigni a bacca bianca, per una produzione annua di 130mila bottiglie, in costante crescita. Lavoriamo esclusivamente con il canale Ho.Re.Ca. e l’Italia è il nostro mercato più importante (circa 55%) , ma stiamo crescendo anche all’estero, soprattutto in USA e Germania, con Canada, Brasile, Svizzera, Olanda, Belgio, Gran Bretagna, Polonia e Giappone a fare da contorno. Produciamo soltanto vini fermi per una scelta ben precisa: sono convinto che sia molto più produttivo concentrarsi su quello che si sa fare bene, senza disperdere le risorse. Esistono territori molto più vocati del nostro alla produzione di spumanti e non avrebbe senso entrare in concorrenza con loro.”
Quanto stanno influendo i cambiamenti climatici sul vostro lavoro?
“La prima annata che ha dato il segnale del cambiamento è stata il 1999. Prima della metà di settembre non si iniziava mai a vendemmiare, arrivando fino a metà novembre con le uve rosse. Quell’anno abbiamo iniziato la raccolta l’ultima settimana di agosto e sono nati vini dalla grande struttura e molto potenti a livello alcolico. Le annate seguenti hanno continuato ad essere sempre più calde e precoci. A quel punto si è iniziato a ragionare dal punto di vista agronomico, dedicando molta attenzione alle potature: se prima si produceva e si diradava parecchio, ora si lavora di più sulla resa e si lascia molta più chioma sulle piante, per esporre le uve meno violentemente al sole. Onde evitare concentrazioni zuccherine elevate e la surmaturazione delle uve, siamo stati costretti ad anticipare la raccolta, che ormai si è stabilizzata con una quindicina di giorni di anticipo.”
La sostenibilità è il vostro fiore all’occhiello.
“Credo che la sostenibilità sia un punto molto importante per tutta la filiera agroalimentare. Noi già da qualche anno siamo entrati nel disciplinare SQNPI, con utilizzo moderato dei prodotti chimici. In più nelle nostre vigne il diserbo è esclusivamente meccanico, abbiamo adottato un sistema di sub-irrigazione molto attento agli sprechi e l’impianto fotovoltaico copre l’intero nostro fabbisogno. Non siamo certificati come azienda biologica nè biodinamica: nel nostro territorio è complicato adottare questi sistemi. Il Friuli-Venezia Giulia ha una media di precipitazioni intorno ai 1300mm annui, concentrate nel periodo invernale e in tarda primavera, il momento più critico per i vigneti quando le piante sono in fioritura. Se si fanno interventi mirati e limitati con prodotti chimici, se ne usano pochi e si proteggono bene le piante dalle malattie più comuni. Lavorando biologicamente con gli unici prodotti ammessi (rame e zolfo), bisogna intervenire dopo ogni precipitazione, con il rischio di non essere tempestivi nè efficaci. In più consumo di gasolio, calpestamento del suolo, ore di lavoro si trasformano in costi molto più alti per l’azienda. Le ricerche parlano chiaro: un prodotto gestito in maniera convenzionale ha meno residui rispetto all’agricoltura biologica: per fare un esempio, il rame è un metallo pesante, dannoso per l’ambiente e per l’essere umano e si accumula nel terreno, creando fitotossicità e sterilità. In altre zone come la Sicilia e la Toscana dove si fanno 4-5 trattamenti l’anno, lavorare con il biologico diventa molto più semplice.”
Come sta cambiando l’approccio dei consumatori verso la scelta dei vini?
“Negli ultimi anni la tendenza è piuttosto chiara: più sale la qualità del prodotto, più si incontra una fascia di clientela alta, che si impegna a capire, a ricercare e a fare le giuste domande. Per noi è fonte di grande soddisfazione vedere un interesse crescente verso la qualità. Ormai non si discute più solo del prezzo di una bottiglia. Anche a causa della pandemia, si è creata una forbice molto ampia tra i prodotti di base con un prezzo basso destinati principalmente alla GDO, e i vini di fascia alta, apprezzati da un consumatore più attento.”
A questo discorso si lega anche la questione molto attuale dell’etichettatura…
“Capisco l’esigenza in un Paese come l’Irlanda: come tanti nel Nord Europa, hanno grossi problemi con l’abuso delle sostanze alcoliche. Creare questa sorta di terrorismo psicologico non credo sia la giusta soluzione. Da sempre il vino rientra nella dieta mediterranea e un consumo limitato non è dannoso per la salute. È sempre l’abuso che crea il problema, indipendentemente dal prodotto. Certo sarebbe brutto vedere in etichetta sempre più simboli legati alle normative, ma penso che dopo le preoccupazioni iniziali si ritornerà alle abitudini consuete. Anzi, le persone diventeranno ancora più obiettive e consapevoli: più il vino è di qualità, meno è dannoso; più il vino è fatto bene, meno avrà bisogno di strane “integrazioni”. E lo stesso principio vale anche per gli altri prodotti dell’agroalimentare. Bisognerebbe fare più cultura, partendo dalle scuole.”
Parliamo dei vostri vini, partendo dai bianchi.
“Abbiamo deciso di separare le linee tra i vini giovani e freschi di pronta beva e quelli più importanti, con uno stile internazionale. Nella linea Scudi ci sono i bianchi vinificati e affinati in acciaio, tutti monovarietali: Ribolla Gialla, Pinot Grigio, Chardonnay, Sauvignon Blanc e Friulano. Nelle selezioni, chiamate White Label, abbiamo il Maurus, uno Chardonnay vinificato in acciaio che finisce la fermentazione in barrique di rovere francese, con un elevage di 9-10 mesi: è sul mercato due anni dopo la vendemmia. Abbiamo infine una linea chiamata Black Label, con selezioni prodotte solo in alcune annate. Jesimis è un Pinot Grigio ramato che segue la stessa vinificazione dello chardonnay, molto apprezzato soprattutto all’estero. Non è un orange nè tantomeno un rosè. La sua bottiglia trasparente mette in risalto il colore aranciato tipico dell’uvaggio.”
Passiamo ai rossi.
“Sassirossi è il nostro blend di punta (60% Merlot e 40% Cabernet Sauvignon), vinificato in acciaio e affinato per un anno in barrique. Il nostro vino più importante come storia e come qualità, con l’orgoglio di averlo valorizzato in un territorio come il nostro storicamente poco vocato a questo tipo di vitigno, è il Pinot Nero, che quest’anno compie 30 anni dalla prima vendemmia, del quale produciamo quasi 20mila bottiglie. Esce in due versioni: la White Label fa un anno di affinamento in barrique, mentre il Maurus Black Label fa 18 mesi in botte più altri 12 in bottiglia prima della commercializzazione. Infine abbiamo il Semidis: 100% Merlot con 24 mesi di affinamento in legno, prodotto solo nelle migliori annate da vigneti con un’età media di oltre 40 anni.”
Un vino o un produttore che è stato fonte di ispirazione…
“Sono contento e fortunato ad averlo come vicino di casa: è mio cugino Gianfranco Gallo di Vie di Romans, con cui ho un ottimo rapporto. È di qualche anno più vecchio di me e l’ho sempre preso come punto di riferimento: vedere come gestisce i vigneti e assaggiare i suoi vini mi ha sempre dato il giusto stimolo per lavorare sempre meglio.”
Chiudiamo con un consiglio per i giovani che si avvicinano a questo mondo.
“Nel mondo del vino, così come in qualsiasi altro settore, ci vogliono convinzione, volontà e capacità. Tutto però nasce dalla passione. L’agricoltura, al contrario dell’industria, è legata per forza di cose all’andamento climatico e alla natura. Quando si inizia questo percorso bisogna essere consapevoli delle difficoltà, bisogna avere in testa un progetto e portarlo fino in fondo, senza farsi condizionare da quello che succede: in questo la passione è fondamentale. Poi ci vuole grande curiosità: non smettere mai di assaggiare vini.”