Incontri a Spumantitalia: Attilio Scienza
In occasione della quinta edizione del Festival Spumantitalia, l’evento di Bubble’s Italia dedicato alle bollicine italiane, abbiamo incontrato Attilio Scienza, agronomo tra i più stimati a livello italiano e internazionale, professore ordinario presso l’Università degli Studi di Milano e presidente del Comitato nazionale vini DOP e IGP del Masaf. Con il professor Scienza abbiamo parlato del presente e del futuro della viticoltura italiana, con un focus particolare sul mondo della spumantistica.
Partiamo da una considerazione generale sullo spumante italiano…
“Lo spumante è certamente un tema molto attuale anche dal punto di vista dei consumatori, che si stanno rivolgendo sempre più verso vini leggeri e meno impegnativi. Il cambiamento climatico sta modificando anche le nostre abitudini alimentari: si mangiano più verdure, si consuma più pesce e quindi c’è bisogno dei giusti abbinamenti. I giovani poi hanno eletto le bollicine a loro bandiera, punto di riferimento sensoriale ed emotivo. Da qui il grande successo di questi vini ma anche i grandi pericoli che ne derivano, come sempre legati alla banalizzazione. Tutti ormai producono spumante, con i vitigni più strani e nei modi più curiosi, in luoghi dove nessuno immaginava si potessero coltivare uve per questa destinazione. Lo spumante non è solo un vino frizzante, ha caratteristiche di complessità e anche di mistero che vanno preservate.”
Quali sono le prospettive per il futuro?
“Penso che il futuro della spumantizzazione sia molto legato al territorio. L’Appennino può diventare il luogo ideale per coltivare le varietà tipiche del metodo classico come Pinot Nero e Chardonnay nei territori più alti, intorno ai 700 metri: la Maiella, il Gran Sasso, le zone interne dell’Abruzzo e della Puglia, dove troviamo terreni marnosi e uno scambio termico molto simili all’area della Champagne. La costa adriatica gode di un clima più continentale rispetto a quella tirrenica, con l’influenza delle arie fredde da oriente che danno un’escursione termica maggiore. In più il Tirreno non ha grandi varietà, tolto il Vermentino o scendendo verso la Campania Greco, Fiano e Falanghina, mentre l’Adriatico ha conservato una variabilità genetica molto più alta. Pensiamo al Verdicchio, al Pecorino, alla Passerina, ai vitigni della Calabria. Ci sono fattori ambientali e genetici molto interessanti per un’idea di spumante che si avvicina al modello italiano, ma con caratteristiche peculiari. Per uscire dalla banalità, però, bisogna ancora una volta definire i contorni.”
Il consumatore medio percepisce ancora una differenza di qualità tra metodo classico e metodo italiano. È solo un problema di comunicazione?
“Ogni prodotto, per essere valorizzato, non può prescindere dal giusto storytelling. Il metodo classico deve mantenere il suo riferimento storico che è lo Champagne, altrimenti non ha molto più da dare. Si può fare uno spumante molto buono, ma il valore è dato come sempre dalla comunicazione e dall’immagine ad essa legata. Nel caso del metodo italiano, invece, non dobbiamo utilizzare l’evocazione degli spumanti del passato ma cercare di dare a questi vini un valore aggiunto. Molto spesso sono anonimi, chiamati con nomi di fantasia, non legati al territorio perché non ha una tradizione spumantistica e quindi non suscita interesse nel consumatore. Dovremmo cercare di utilizzare gli elementi che possono dare qualcosa in più.”
Quali sono questi elementi di distinzione?
“Bisogna puntare prima di tutto sulla caratteristica varietale. Spesso nello spumante il vitigno passa in secondo piano. Mentre nei vini rossi gli si dà importanza, pensiamo al nebbiolo per il Barolo o al sangiovese per il Brunello, negli spumanti che si fanno soprattutto nel centro-sud c’è la marca, c’è forse una qualche denominazione, ma non c’è il riferimento preciso ad una varietà, alla sua storia, alla cultura e alla sua origine. Perchè ci si dovrebbe vergognare ad utilizzare un’uva che in passato era conosciuta per i vini da pasto o da taglio, la quale trova poi nobiltà e viene valorizzata nella spumantizzazione? Altro aspetto fondamentale è il terroir: dobbiamo porre l’accento sulle sue ricchezze e diversità. Questi secondo me sono gli elementi da sfruttare in futuro, perché il consumatore non si accontenta più di bere un buon vino, ma sta diventando sempre più sensibile alle storie e agli approfondimenti.”
Questo discorso si lega inevitabilmente all’enoturismo…
“La valorizzazione del territorio, sulla quale in diverse zone d’Italia siamo ancora indietro, deve essere il prossimo salto di qualità nella comunicazione del vino. Un esempio molto indicativo è quello dell’Oltrepò, dove negli anni hanno dimenticato di essere stati la prima zona italiana di adozione del pinot nero. Hanno perso questo collegamento fra spumante e territorio e non sono stati più capaci di comunicarlo: in pochi in Italia sanno che in Oltrepò si fa spumante di qualità. Quando si cita il metodo classico, si pensa al Trentino, alla Franciacorta e all’Alta Langa, tutti territori dove si sono costruite alleanze tra viticoltori che lavorano e comunicano insieme.”
Si discute molto sugli effetti del cambiamento climatico. Proviamo a fare un po’ di chiarezza?
“Il problema principale è che i cambiamenti climatici vengono visti come un fenomeno generalizzato, mentre invece hanno effetti assolutamente locali, molto più importanti ad esempio nei territori con clima continentale rispetto a quelli marini o alpini. Basta poco per cambiare le caratteristiche di un clima: all’interno delle carte del calore, che hanno una scala molto ampia, ci sono milioni di variabili che cambiano. Pensiamo all’orografia, alle valli e alle pendici di un territorio, alle esposizioni. Nella zona del Prosecco, pur non essendoci grande altitudine, c’è l’aria che dalle montagne si incanala nelle valli e raffredda moltissimo. Siamo in un’area vicina alla pianura che all’apparenza sembrerebbe molto calda, ma che invece è fortemente condizionata dall’orografia. Le zone di mare sono oggi le meno condizionate e lì si può lavorare bene sullo sviluppo dei vitigni aromatici. Il cambiamento climatico va analizzato, localizzandolo e contestualizzandolo al territorio. Al momento si sta navigando un po’ a vista, ma il futuro della ricerca sarà quello di trovare all’interno delle micro zone i luoghi giusti per i vitigni giusti.”
Qual è la sua opinione sugli health warnings?
“Inevitabilmente questi allarmi creano nel consumatore un po’ di incertezza e lo portano a farsi delle domande. All’atto pratico però, come abbiamo già visto per quanto riguarda le sigarette, credo non avranno un impatto così importante. Temo invece conseguenze concrete per i produttori a livello fiscale, con aumenti delle accise ad esempio. Bisogna anche considerare che i paesi del nord Europa come l’Irlanda hanno uno spirito un po’ integralista e soprattutto hanno il problema dell’abuso di alcolici, non di vino. Una comunicazione corretta dovrebbe spiegare, oltre agli effetti nocivi, che il vino nei paesi mediterranei è sempre stato utilizzato come bevanda a complemento del cibo, è una questione culturale. Sento troppo spesso stupidaggini sugli effetti di un bicchiere di vino sulla mente, la psiche o il cervello. Così non va bene. In ogni caso, finché con noi in questa battaglia ci saranno i grandi produttori come Spagna, Francia e Portogallo, non credo ci sia molto di cui preoccuparsi.”