Barbara Sgarzi: vino, donne e nuovi social media

Aprendo il suo sito, si viene accolti da un sorriso contagioso accompagnato da questo motto: “Se dite che i social network sono pieni di stupidaggini, state seguendo le persone sbagliate.” Per chi non avesse ancora indovinato, stiamo parlando di Barbara Sgarzi, giornalista, scrittrice, docente di social media, consulente e formatrice, sommelier AIS e Donna del Vino.

Accomunati dalla passione per gli argomenti di cui parlano i suoi ultimi due libri (Social Media Wine e Vino, donne e leadership), ci siamo fatti raccontare da Barbara la sua storia e le sue idee sulla comunicazione del vino e non solo.

Come ti sei avvicinata al mondo del vino?
“Ho sempre amato bere e mangiare bene, mi piace cucinare e andare per ristoranti. Quando lavoravo a Grazia ho avuto la fortuna di intervistare chef importanti come Gordon Ramsay e Carlo Cracco quando era ancora da Peck, che all’epoca non erano le star che sono oggi. Non c’erano le trasmissioni TV e i social, quindi erano molto più avvicinabili. Ho sempre avuto anche il desiderio di fare il corso da sommelier, ma rimandavo per mancanza di tempo, per poi farlo quando di tempo davvero non ne avevo, cioè quando era già nata mia figlia. Mi sono diplomata Ais nel 2016 e da lì ovviamente ho iniziato a scrivere di vino, anche per la stessa associazione. Quando Nicoletta Polla-Mattiot, che era la mia vice direttrice a Grazia, mi ha chiamata a Il Sole 24 Ore per scrivere di lifestyle su How To Spend It, mi è venuto naturale proporre sempre più pezzi sul vino. Poi da cosa nasce cosa e oggi il vino occupa una buona parte della mia attività.”

Partiamo dal tu penultimo libro, Social Media Wine.
“Questo libro nasce sulla scia del precedente, Social Media Journalism, uscito tre anni prima sempre per Apogeo. È stata la mia fatica più grande, perché riassume l’esperienza di dieci anni di formazione a colleghi giornalisti che ho fatto per Condé Nast e per il Gruppo RCS. È un manuale d’uso per i giornalisti che vogliono avvicinarsi ai social, con la prefazione di Ferruccio de Bortoli, allora al timone del Corriere. Sulla stessa falsariga, lavorando sulla comunicazione del vino, ho pensato di replicare l’idea. In tre anni le cose erano cambiate tantissimo, per esempio era esploso il fenomeno Instagram, che è diventato l’argomento principale di Social Media Wine. Da lì ho iniziato a fare corsi, prima con la casa editrice, poi con Ais, consorzi, cantine, su come promuovere al meglio il vino sul digitale. È nata anche una collaborazione con l’Università Cattolica di Brescia, che mi ha chiamato a fare un modulo nel suo Master in Comunicazione dell’enologia e del territorio. Nel frattempo sono passati altri quattro anni ed il mondo dei social si è capovolto di nuovo.”

Quali sono gli errori più comuni che si fanno oggi nella comunicazione digitale sul mondo del vino?
“Se la si fa in casa, per così dire, succede spesso di sottovalutarla, affidandola a persone non qualificate o che hanno già troppo sul loro piatto e quindi la gestiscono nei ritagli di tempo, mentre oggi è un biglietto da visita importantissimo. Quello che noto nella pratica è che molti non ci mettono la faccia, privilegiando le solite foto della bottiglia o del grappolo al tramonto: belle quanto vuoi, però hanno stufato. Il vino andrebbe raccontato tramite le storie di chi lo fa. La gente vuole vedere persone e ascoltare storie. Sui social media la comunicazione di prodotto intesa come la si faceva negli anni ’80 e ’90 non funziona, perché non sono spazi pubblicitari comprati, ma luoghi di conversazione.”

Per chi invece lavora con le agenzie, come funziona?
“L’errore più ricorrente è
pensare che le agenzie vadano avanti in maniera autonoma. Si corre il rischio di appiattire la comunicazione, soprattutto se gestiscono tante aziende simili. Magari tecnicamente sono bravissimi, fanno bellissimi video e foto, ma con un tono di voce standard che applicano indistintamente e non con quello del cliente. Ovviamente sto generalizzando, ci sono anche ottime agenzie che fanno lavori molto personalizzati, però in generale il consiglio è di seguire tutto sempre da vicino, per essere certi che gli account social parlino con la voce dell’azienda.”

Cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro?
“La crescita dei nuovi strumenti, soprattutto TikTok, parla da sola: possono esserne una finestra per catturare quel pubblico più giovane che preferisce la birra o gli spirits al vino, lo conosce poco e lo considera magari un prodotto ‘da vecchi’. TikTok ha dimostrato con hashtag come #booktok o con l’informazione medica, per esempio, che non è solo la app dei balletti, ma c’è ben altro e dipende sempre da come lo si usa. L’altra cosa che io vedo, e devo ammettere che un po’ mi mi fa piacere, è un rallentamento dell’hype sui social media. Dopo un decennio in cui tutti si sono buttati ciecamente e acriticamente sui social, perché bisognava esserci, ora le aziende sono più propense a farsi domande del tipo: ci devo essere davvero? E se sì, come? Che valore aggiunto posso portare? Quale originalità? Se non si riesce a rispondere a questi quesiti in modo soddisfacente, si può anche decidere di non esserci. Pur lavorando nell’ambiente, preferisco si faccia una riflessione strategica di comunicazione ed eventualmente si decida di investire su una sola piattaforma in maniera originale, invece di riempirle tutte e aumentare solo il rumore di fondo.”

Quanto può essere strategico per un’azienda intercettare un pubblico giovane come quello di TikTok?
“Parliamo di giovani, ovviamente maggiorenni, che magari prediligono birra e cocktail ma potrebbero essere interessati al vino se comunicato in modo diverso. Con uno strumento come TikTok secondo me si può combattere una grande battaglia, quella sul linguaggio del vino, che considero ancora davvero troppo ingessato e in qualche modo respingente verso chi ne sa poco. Se un wine lover che ama bere un buon bicchiere di vino e vorrebbe saperne di più, va in un ristorante stellato e si trova davanti un sommelier rigidissimo che gli mette in mano una carta dei vini da 100 pagine, inizia a sudare perché non ha idea di cosa deve fare, di cosa deve ordinare. Forse a livello di target non si potrà allargarlo o ringiovanirlo, però si può contribuire a rendere più inclusivo il linguaggio e a divulgare allo stesso tempo informazioni importanti. Banalmente anche cosa vuol dire metodo classico, che differenza c’è con il Prosecco. Cose che noi diamo per scontate, ma che tanta gente che spende anche cifre considerevoli per bere magari non conosce.”

Ho adorato il tuo articolo su ChatGPT e in particolare la domanda sul Barolo del ’72…
“Essendo nata nel 1972, ho questo pallino del Barolo, che quell’anno quasi tutti hanno declassato perché è stata un’annata tra le più sfortunate. Il fatto che alla mia domanda abbia risposto che era stata una vendemmia eccezionale con dei vini fantastici, mi ha lasciato basita. Battute a parte, non credo si debba avere timore di ChatGPT, anche perché io tendo a non avere mai paura delle nuove tecnologie. L’intelligenza artificiale per chi si occupa di redazione di contenuti può essere un aiuto per realizzare una prima scrittura, per togliere un po’ di lavoro sporco. Come diventerà da qui a breve non saprei dirlo, perché ormai l’evoluzione è rapidissima. Rimango però fiduciosa sul fatto che l’apporto umano sarà sempre fondamentale, soprattutto per le opere di ingegno. Ovviamente, come tutti gli strumenti diciamo inerti, bisogna saperlo usare: ChatGPT ha un disclaimer piuttosto chiaro sul fatto che non è un oracolo e per il momento ha delle limitazioni, e non ne fa mistero. Torniamo al solito discorso della gente che crede alle fake news o ai gattini bonsai sottovetro. All’utilizzatore finale sarà richiesto ancora più discernimento e qualcuno che interpreti la realtà per chi non ha gli strumenti per farlo, servirà sempre.”

Dopo la pandemia, si respira una grande voglia di tornare all’esperienza diretta. Come si coniuga con la comunicazione social?
“Qui si sfonda una porta aperta, perchè da sempre una delle mie slide fondamentali nei corsi parla proprio di enoturismo e del circolo virtuoso fra online e offline. Quello che dico alle aziende è che i social servono per portare le persone in cantina, per dare tutte le informazioni perché spesso ci sono i non detti, come ad esempio i prezzi delle degustazioni, ma il cerchio non si chiude qui. Una volta che hai portato le persone da te, devi fare di tutto affinché ne parlino sui social. Basta anche banalmente avere l’angolo instagrammabile, il Wi-Fi gratis, fare dei piccoli contest e cose simili. L’obiettivo è far diventare i visitatori e i consumatori degli ambassador del tuo marchio.”

Hai trovato dei tratti comuni nelle storie delle donne con cui hai parlato per il tuo ultimo libro?
“Sì. Non ho voluto creare a priori una lista di valori di leadership, di pilastri, perché avrei rischiato di fare delle interviste a tema. Al contrario, ho fatto 32 conversazioni completamente libere, parlando di tutto. Le donne sono state di una generosità incredibile e si sono creati anche dei bei rapporti. Ho chiesto come interpretavano il loro ruolo, se avevano degli aneddoti, perché credo molto nella forza delle storie come valore educativo. Alla fine ho lasciato che i valori comuni emergessero da soli: ne ho individuati nove che sono stati adottati più o meno consapevolmente da queste donne, indipendentemente dalla loro origine, dal ceto sociale, dall’età e dalle esperienze personali. Ci sono modalità che tutte loro mettono in campo in un ambiente maschile come quello del vino, o in altri in cui ci si deve ancora misurare con la leadership femminile, perché probabilmente sono quelle vincenti. Questi nove valori sono diventati poi la struttura del libro, divisi in tre macro aree che sono il terroir, quindi la vigna e i princìpi fondanti, la cantina, cioè i tre valori di trasformazione, e infine il calice, quando si promuove e si comunica il prodotto finale. La cosa bella è stato sentire le stesse cose dette da persone molto diverse tra loro come ad esempio Tiziana Frescobaldi, discendente della storica famiglia toscana, e Arianna Occhipinti che si è costruita da sola la sua realtà ettaro dopo ettaro. Mondi opposti, quindi evidentemente esistono dei valori comuni, indipendentemente da chi tu sia e da dove arrivi.”

Quali sono gli ostacoli che ancora oggi trovano le donne nel mondo del vino?
“Questo libro non vuole essere una lamentela e neanche un muro contro muro, uomini contro donne, perchè credo non serva a nulla. Quindi, per iniziare con una annotazione positiva, posso dire che le intervistate più giovani avvertono e subiscono decisamente meno il maschilismo in questo mondo. Ci sono state prima di loro delle pioniere che hanno avuto ostacoli enormi sulla loro strada, ma hanno aperto la via per le nuove generazioni. Camilla Lunelli mi ha detto che il cambiamento è ancora troppo lento, però si avverte, quindi la ruota si è messa in moto. Le donne più grandi hanno avuto il problema di dover prendere in mano l’azienda dai padri, spesso in seguito a un evento traumatico, trovandosi molto giovani senza una guida e dovendo gestire dei dipendenti, tutti maschi. Venivano costantemente paragonate ai genitori, ovviamente per difetto, oppure non godevano della fiducia dei finanziatori. Una storia interessante è quella di Marina Cvetic, rimasta vedova molto presto, che ha condotto l’azienda con risultati eccellenti, ma all’inizio non c’era un direttore di banca che la ascoltasse, non era considerata un’imprenditrice affidabile. Valentina di Camillo, che per i canoni italiani è ancora molto giovane, non è presente nel libro ma in altre occasioni mi ha detto che si stupisce che le chiedano di parlare della situazione delle donne, perché nel suo caso non vede nessuna discriminazione. Donatella Cinelli Colombini, che ha tutt’altra età ed esperienza, dice che quando studiava enologia era l’unica donna. Ha fatto così tanta fatica che quando ha avviato la sua attività ha voluto solo donne a lavorare con lei, aprendo una strada che hanno seguito in molte.”

C’è un aneddoto o una storia che ti ha particolarmente colpito?
“Gli aneddoti che mi commuovono sempre sono quelli delle nonne, ad esempio quando raccontano delle nipoti ventenni che entrano in cantina e vogliono fare il vino per chiamarlo come loro. Una delle storie che mi ha incuriosito di più è nel libro e secondo me è esemplificativa di come spesso ci auto censuriamo e crediamo sia troppo tardi per cambiare vita. Elaine Chuck Brown è tra le più note wine writer americane e ha collaborato fino a poco tempo fa, prima di mettersi in proprio, con Jansis Robinson, una delle prime Master of Wine donna. È di origini Inuit, nata in Alaska, uno dei posti più remoti per quanto riguarda la conoscenza del vino, in una famiglia che ha sempre lavorato nel settore della pesca. Per anni è salita su un rompighiaccio e ha pescato e venduto salmone: questa era la sua vita. A un certo punto si è detta ‘il mondo non può essere tutto qui’ e con piglio molto americano, si è messa in gioco iniziando a viaggiare per tutti gli Stati Uniti, si è iscritta all’università e ha preso un PhD in filosofia. Finché, come in quelle storie d’amore contrastate in cui si incontra l’uomo giusto dopo mille peripezie, ha scoperto per caso in una serata la sua grande passione per il vino e ha iniziato a studiare, diventando in poco tempo uno dei pilastri della critica enologica americana. Io credo che un racconto come questo sia di ispirazione per tutti coloro che pensano che è sempre troppo tardi per cambiare, che le esperienze maturate non possano valere in situazioni diverse dalla propria zona di comfort.”

Ultima domanda. Secondo te c’è ancora spazio per chi vuole lavorare in questo settore?
“Proprio per non smentire l’aneddoto di prima, credo che spazio, speranze e possibilità ci siano sempre. Di sicuro non è più come dieci anni fa, quando gli algoritmi dei social erano molto più generosi nell’elargire follower e visibilità. Penso che ci sia ancora spazio se si riesce a trovare la propria voce, una modalità originale nel comunicare. Ci siamo stufati degli influencer vuoti: sul vino ci vuole un un’esperienza diversa, bisogna capire che il numero dei follower non è tutto. Chi ieri promuoveva pannolini per bambini oggi non può promuovere il tuo vino. Parlavo tempo fa con Vincenzo Russo, docente di neuromarketing allo IULM di Milano, a proposito dell’uso sbagliato dei social e del fenomeno di chi sfrutta un po’ troppo le doti fisiche per promuovere il vino in modo a mio parere opinabile, perché distrae dal prodotto. Lui utilizza un termine molto bello, dicendo che non andrebbero ingaggiati degli influencer ma degli influexpert, cioè persone che abbiano ovviamente un’influenza sul loro pubblico, perché altrimenti la risonanza è zero, ma che sappiano di cosa stanno parlando. È forse più una speranza che una previsione, ma secondo me c’è ancora spazio per chi riesce a veicolare contenuti autentici, ovviamente in modo originale, perché se sei una copia di tutti gli altri account, la gente si stufa in fretta.”

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