Storie di donne: Francesca Pagnoncelli Folcieri
Mamma, moglie, architetto, produttrice di vino e a capo di un consorzio. Serve aggiungere altro? Francesca Pagnoncelli Folcieri, titolare dell’azienda di famiglia e presidente del Consorzio di Tutela Moscato di Scanzo, ha raccontato a oscarwine la sua storia di donna nel mondo del vino: una lezione di capacità e impegno per chi dice “non ce la posso fare”.
Quali sono i tuoi primi ricordi legati al vino?
“La mia storia con il vino è iniziata prestissimo, praticamente da quando ho avuto la possibilità di stare in piedi in vigna. La famiglia al completo era coinvolta nel lavoro in azienda, in un’epoca in cui si producevano al massimo un centinaio di bottiglie tra Moscato di Scanzo e Moscato Giallo, che non facciamo più. A causa delle pendenze dei vigneti e con il terreno reso viscido dalle piogge di inizio autunno era facilissimo finire con il sedere a terra e scivolare in basso, ma l’ordine tassativo degli adulti era quello di tenere sempre e comunque le cassette dritte e di non perdere nemmeno un grappolo. Ricordo ancora il mantra di mio nonno: ‘Spaccati pure una gamba, basta che la cassetta arrivi sana e salva alla fine del vigneto’.
Oltre a portare le cassette a rischio della tua incolumità, cosa facevi?
“A noi piccoli della famiglia – io, mio fratello e i nostri due cugini – toccava anche il compito della pigiatura con i piedi, che non ha niente a che vedere con l’immagine bucolica di fine estate che vediamo nei film: mettere i piedi nel mosto in ottobre era come immergerli nel ghiaccio. La nonna ci aspettava con la bacinella dell’acqua calda e nel frattempo si ballava a ritmo di musica nel tino per non congelarsi. I ricordi più belli sono legati ai momenti in cui si lavorava tutti insieme, anche con i contadini della zona che iniziavano a cantare o a raccontare storie e barzellette in dialetto bergamasco, che da noi in casa non si usava. Ora le cose sono cambiate e purtroppo è difficile ricreare quell’atmosfera e riunire gli amici in vigna, perchè le normative non lo consentono.”
Come prosegue la storia?
“Una volta che entri in contatto con questo mondo, non riesci più a lasciarlo. Io ho fatto tutt’altro, mi sono laureata in architettura e ho lavorato in quell’ambiente per otto anni, ma nel momento in cui mio padre ha pensato di cedere l’attività, noi fratelli ci siamo presi la responsabilità di portare avanti la tradizione di famiglia e dall’anno scorso sono diventata titolare della cantina insieme a mio marito. Io continuo a fare anche un altro lavoro, ma sono sempre più concentrata sul mio ruolo in azienda.”
Famiglia, lavoro, cantina. Come si fa a gestire tutte queste cose?
“Non si dovrebbe fare. Corro come una pazza, perdo i pezzi, mi dimentico tutto: non bastano le agende, i calendari, i pizzini – come li chiamiamo io e mio marito. Prima vivevo questa cosa con ansia, ma ora ho imparato a lasciar andare. Una donna spesso si illude che i figli crescendo abbiano meno bisogno di attenzioni ma non è così. Cambiano le necessità ma non il tempo da dedicare loro. La mia fortuna è quella di avere delle giornate lavorative elastiche, anche se i programmi saltano regolarmente un secondo dopo averli fatti. Vivendo in un paese piccolo come Scanzo, per fare cinque minuti di strada ci metto mezz’ora, tra saluti e chiacchiere con i compaesani. È una dimensione che mi piace molto e cerco di godermela, anche se la quantità di lavoro che viene richiesta in una giornata è diventata ormai insostenibile e gli spazi per coltivare i rapporti umani sono sempre meno, anche nel mondo del vino.”
Quanto contano questi rapporti nel tuo lavoro?
“Per la nostra dimensione sono essenziali. Noi facciamo vendita diretta, almeno il 95% delle bottiglie finisce direttamente ai consumatori, che sono concentrati tutti nella provincia di Bergamo. Vengono da noi in azienda o addirittura nella farmacia di famiglia, che fino al 2007 era in casa nostra: chi voleva una bottiglia di moscato chiedeva a mio padre o a mio nonno che scendevano a prenderla in cantina. Questa abitudine si è mantenuta nel paese ed è una scusa per rivedersi almeno una volta l’anno. La chiacchiera è innanzitutto piacevole, ma è anche una parte fondamentale del nostro lavoro.”
A tutto questo si aggiunge la presidenza del Consorzio.
“Per fortuna non sono da sola: siamo in cinque nel CDA e ognuno fa la sua parte. C’è una presidenza solo perchè lo statuto lo richiede e me l’hanno data quasi a forza, visto che sono quella che ha meno paura ad esporsi e a parlare in pubblico, ma di fatto siamo tutti uguali. Non è facile, le realtà dei consorzi sono complicate, però sapevamo esattamente a cosa andavamo incontro e tutti e cinque condividiamo le stesse finalità, pur partendo da punti di vista diversi. Mi trovo molto bene a lavorare con questo gruppo: siamo solo all’inizio del mandato e il consorzio è molto piccolo, ma le poche cose fatte finora hanno funzionato. Stiamo lavorando con l’idea di creare un maggior interscambio tra i soci e con le realtà del territorio, senza perdere di vista l’obiettivo primario, che è sempre quello di far vendere il nostro vino.”
La presenza delle donne in questo mondo è in forte aumento, anche nelle presidenze dei consorzi. Credi esista una via femminile al vino?
“Sì, l’approccio femminile esiste e non solo nel mondo del vino. Senza voler generalizzare vedo nelle donne, soprattutto in quelle con maggiore esperienza, un metodo più costruttivo nell’affrontare le cose, meno condizionato da certe dinamiche legate all’interesse, a volte anche abbastanza malate. Credo ci sia un modo diverso, anche intellettuale, di costruire i progetti. Nel CDA del consorzio ci sono quattro donne intorno o sopra i 50 anni: se da un lato può essere difficile trovare degli equilibri nei rapporti, da una certa età in poi diventa tutto più semplice, anche perchè dovendo conciliare mille impegni non abbiamo tempo da perdere e le cose si decidono molto in fretta, senza perdersi in sofismi inutili.”
Hai incontrato difficoltà come donna nel tuo lavoro?
“Più che le difficoltà concrete, credo che il vero ostacolo sia la sensazione – che per fortuna si sente sempre meno – che quello che dici o che fai come donna abbia sempre un peso diverso. Con le nuove generazioni le cose stanno cambiando, ma quando hai a che fare con persone più grandi questo sottile dubbio sulle tue capacità tendi a percepirlo. A volte capita che il fatto di essere donna ti metta in una posizione di inferiorità, anche se devo ammettere che ogni tanto siamo noi le prime a finirci da sole: è un filo culturale difficile da spezzare. Se i dibattiti sul ruolo delle donne nella società si riducono alle vallette che Amadeus sceglie per Sanremo, la colpa è anche un po’ nostra. Secondo me la chiave sta nell’interpretazione del proprio ruolo, soprattutto per quelli istituzionali, a prescindere dal genere: se lo interpreti come ruolo di potere e non di intermediario, le tue relazioni con gli altri non saranno mai molto sane.”
È una questione di cultura quindi?
“Di cultura, educazione, apertura mentale. Il nostro mondo è questo ed è ancora abbastanza maschilista, ne siamo consapevoli. Non bisogna piangersi addosso: dobbiamo fare il possibile per dimostrare che possiamo farcela benissimo da sole.”
Qual è a tuo avviso il modo giusto per avvicinarsi al mondo del vino?
“Per chi inizia da zero, non cedere al romanticismo: è un’attività imprenditoriale e come tale presenta una serie di difficoltà che è bene capire fin da subito. Un’impresa vitivinicola richiede investimenti e immobilizzazioni non indifferenti, quindi il consiglio è di affrontare tutto con la massima cognizione di causa. Si ha a che fare con una pianta, cioè con un essere vivente, e con un prodotto finale che pur seguendo sempre lo stesso processo, ogni anno può dare un risultato diverso: ci vuole predisposizione a gestire l’imponderabile. Per chi affronta il passaggio generazionale, il consiglio saggio è prendere il meglio che ci offre il passato – i vecchi quaderni di cantina ad esempio – e studiare, essere pronte a mettere in atto tutti i cambiamenti necessari, confrontandosi e magari anche scontrandosi con chi ci ha preceduto. L’importante è perseverare e ogni anno metterci un po’ del proprio per cambiare le cose, sempre ricordando che il vino, così come la vita, richiede pazienza: bisogna saper aspettare.”