Professioni del vino: la “magia” dell’enologo
Sapete cosa fa un enologo? Qual è il percorso di studio per diventarlo? Avete idea di quante leggende metropolitane girino su questa figura? Le risposte, di seguito, ce le ha date Francesco Iacono, enologo e Direttore Generale ONAV – Organizzazione Nazionale Assaggiatori Vino.
Direttore, quando era bambino sognava di fare l’enologo da grande?
“No, mi immaginavo ingegnere navale. Fino a 18 anni è stato il mio obiettivo, mi piacevano le navi e vivevo vicino al porto di Genova (sono un casertano trapiantato in Liguria). La facoltà di Ingegneria era a Genova ma io volevo andare via dalla città, studiare altrove. Così, il 3 ottobre 1978 andai a Piacenza, dove visitai la facoltà di Agraria per curiosità e mi iscrissi d’istinto. Fu un lancio di dadi, non avevo idea, essendo un cittadino, di cosa significasse veramente agricoltura ma restai affasciato dal piano di studi e dall’atmosfera che percepii.”
Come è scoppiato l’amore?
“Mi sono avvicinato alle coltivazioni arboree e alla viticoltura grazie ai miei due grandi maestri, i professori Fregoni e Scienza, che hanno saputo appassionarmi alla materia. Poi, nei cinque anni successivi alla laurea, sono rimasto a Piacenza dove ho lavorato come borsista all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dopo aver conseguito il Master in enologia, nel 1988 il professor Scienza mi chiese di raggiungerlo all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, oggi Fondazione Edmund Mach – dove era direttore – per fare da collante, favorire un dialogo fra agronomi viticoli e il gruppo di analisi chimica che era molto ben strutturato storicamente. Di fatto, tra queste due parti non c’era dialogo, un delitto vista la potenzialità del posto e le strutture a disposizione.”
Perché le chiesero di intercedere?
“Credo che Scienza mi ritenesse l’unico ad avere un background di studi completo, adatto a comunicare con tutti. “Sei la persona giusta, vieni qui” mi disse. Ho iniziato così e poi ho fondato il gruppo di analisi sensoriale. Il vino è l’elemento che lega chimici e agronomi, è il comun denominatore: i primi pensano al processo di trasformazione, i secondi a creare i presupposti nell’uva utili a favorire questa reazione. Per quei tempi fu una rivoluzione, un uragano in un mondo tradizionalista in cui agronomi e chimici non collaboravano. L’imperativo era: il compito dell’agronomo termina con la vendemmia, quello dell’enologo inizia da questo momento in poi. Una visione limitata delle competenze reciproche. Da quel momento, iniziò un nuovo percorso.”
Qual è il percorso di studi per diventare enologo?
“Ci sono due strade attualmente percorribili. La prima, tradizionale, prevede la frequentazione di una scuola superiore con specializzazione in enologia, come quelle di San Michele, Marsala, Conegliano Veneto e Alba, per citarne alcune: queste realtà preparano gli studenti a parlare di vite ed enologia dal primo anno di liceo. L’unica richiesta, ovviamente, è una predisposizione per la materia; qui troviamo ragazzi che vengono da famiglie del mondo agricolo o che hanno una grande passione e interesse per questi studi. La norma attuale prevede che anche chi non viene da una scuola agraria possa accedere al corso di Laurea in Viticoltura ed Enologia. Poi, dopo la Triennale in viticoltura ed enologia è possibile fare altri due anni per avere una preparazione più completa.”
Veniamo al lato pratico. Cosa fa un enologo in cantina e quanta libertà di movimento ha?
“Nella visione classica, l’enologo è la persona che trasforma l’uva in vino. Negli anni della nascita della scienza del vino, si era diffusa l’idea che il vino si potesse fare a prescindere dalla qualità della materia di partenza, semplicemente rispondendo alle esigenze del mercato. Facendo un esempio estremo…sono in Sicilia, voglio fare uno spumante: ho gli strumenti tecnologici per poterlo realizzare.”
Detta così sembrereste degli sciamani dell’uva…
“Sì, magia con delle conoscenze tecniche. A parte gli scherzi, con gli anni novanta, questa visione è cambiata perché l’agronomo, o meglio la materia prima, è diventata protagonista. Si è iniziato a parlare di terroir e sua valorizzazione, di varietà delle uve. L’enologo deve avere due orecchie, una alla campagna (fare attenzione a chi ha un background culturale per poter dire dove si può arrivare con un tipo di uva) e l’altra al mercato che chiede una certa tipologia di vino. Bisogna collaborare con chi lavora in vigna, altrimenti il ruolo dell’enologo diventa avulso dal contesto: parola d’ordine collaborazione. Quando andai a lavorare da Arcipelago Muratori ho voluto tra i miei collaboratori sia gli agronomi che gli enologi. In ogni tenuta del gruppo, volevo parlare un solo linguaggio: vigna, vinificazioni e assaggi.”
Qual è il vino più estremo al quale ha lavorato?
“La decisione più provocatoria, presa in tempi non sospetti, è stata decidere di fare in Franciacorta solo DOCG, quello che tecnicamente è un metodo classico, e di interpretare le bollicine come vini tranquilli, legati fortemente al terroir e non alla tipologia di gusto dello spumante finale: brut, extrabrut, dosaggio zero e altri. Alla valenza tecnologica ho preferito la zonazione, valorizzando le uve per il loro carattere. Fu una provocazione fortissima: un mondo estremamente tecnologico trasformato in uno legato all’agronomia e al territorio. Realizzato questo, mi sono avvicinato ai vini non convenzionali con un approccio organolettico convenzionale.”
Ossia?
“Ho cercato di ridurre, se non eliminare, l’uso di additivi e coadiuvanti, dalla solforosa alle chiarifiche, per ottenere un vino per il consumatore medio simile a quello ottenuto con mezzi convenzionali. Non mi sono spostato verso i vini naturali ma ho puntato comunque alla salubrità del prodotto. Lavoravamo usando la fisica non la chimica. Sono due cose molto diverse.”
Tempo fa, ebbe l’idea del Sangiovese affinato in terracotta…
“Ho puntato alle caratteristiche genetiche del vitigno e alla tradizione. Se per produrre il Sangiovese che bevo hanno sempre usato la botte, è chiaro che mi sono abituato a un vino dove il legno ha plasmato il mio gusto. Nel caso della terracotta, l’idea era cercare di dare al vino la morbidezza che il legno è in grado di dare ma senza l’estrazione delle sostanze tanniche e aromatiche. La terracotta cede pochissimo, è un materiale di argilla che in contatto con una sostanza aggressiva con pH acido cede, anche se molto poco. La porosità del materiale consente uno scambio gassoso addirittura maggiore del legno di una botte grande; solitamente, infatti, si tratta l’esterno dell’anfora o giara con della cera per ridurre al minimo lo scambio vino/ossigeno. Se ben utilizzata in cantina, questa tecnica permette di simulare l’effetto micro-ossidativo che si ottiene col legno, eliminando però alcuni aromi quali vaniglia, tostatura e simili. Non dimentichiamo il discorso di recupero della tradizione dell’Etruria dove gli etruschi usavano la terracotta per vinificare e affinare il vino. Abbiamo valorizzato il patrimonio culturale e storico di un vino, restituendo al prodotto un valore che aveva perso.”
Ogni tanto si sente dire, come critica, che l’enologo ha snaturato il vino. Un commento a questa affermazione.
“Tecnologia e conoscenze danno all’enologo gli strumenti per guidare la vinificazione verso obiettivi anche distanti dalle espressioni potenziali del terroir: è un fatto vero, non possiamo disconoscerlo. L’uomo è fatto per provare, fare esperienza, ricerca: è nella sua natura. Il problema nasce quando snaturi il terroir in funzione del mercato. Potrà diventare anche un successo commerciale, forse ma, nel caso, esclusivo di un’azienda e di un vino. Il marketing territoriale è altro, nasce da una condivisone fra operatori che hanno lo stesso concetto di tipicità e riconoscibilità del loro vino. Il consumatore ha bisogno di conforto nell’espressione organolettica di un vino, di conferme nella tipicità, di identificazione e riconoscibilità.”