Le terrecotte del vino spiegate da Francesco Iacono
In un periodo in cui si torna a parlare di luoghi e materiali insoliti per affinare il vino, abbiamo intervistato l’enologo Francesco Iacono, direttore generale di ONAV, per approfondire la questione dell’utilizzo della terracotta. Parliamo di un’operazione di marketing o è un valido sistema? Cosa cambia rispetto all’utilizzo di acciaio e legno? Ecco il punto del direttore.
Parliamo dell’affinamento in terracotta. Cosa ne pensa?
“Si tratta di un materiale “antico”, per diverse ragioni dimenticato e ritenuto obsoleto fino ad una ventina di anni fa. Lo studio e la conoscenza delle terrecotte (sarebbe meglio usare il plurale) sono interessanti, molto sfaccettati, ricchi di complessità anche tecniche costruttive, oltre che enologiche. Per certi versi, una nuova frontiera da esplorare nell’ambito dei materiali non inerti e non passivi rispetto al vino. Quindi, prima di tutto, perché il plurale terrecotte? Perché si tratta di un materiale ottenuto dalla cottura dell’argilla, ma visto che ne esistono tantissime tipologie, così come parliamo delle influenze delle diverse argille sulla qualità dei vini, dovremmo parlare di come le stesse possano influenzare le caratteristiche finali del materiale cotto che otteniamo. Argille ricche di ferro quelle rosse dell’Impruneta a Firenze, ad esempio, che sono totalmente diverse da quelle bianche della Manduria in Puglia. Sono diverse le temperature di cottura cui possono essere sottoposte, sono altrettanto diverse le porosità che le terrecotte che originano possono avere. Per non parlare poi delle potenziali interazioni e scambi di minerali che possono avvenire con il vino. Insomma, un mondo che troppo facilmente tendiamo a semplificare come se trattassimo di acciaio o di vetro. Quindi, rispondendo alla domanda, penso sia giusto approfondire questa tematica e positivo che si sperimenti, a patto di avere degli obiettivi, perseguirli e verificarli.”
Lei ha prodotto un Sangiovese con questo sistema. Qual era il suo obiettivo e quale il risultato?
“Lavoravo nella Maremma livornese, in vigneti giacenti su terreni ricchi di un’argilla abbastanza simile a quella dell’Impruneta. Le difficoltà agronomiche che avevo nel gestire e lavorare quei terreni volevo si potessero tramutare in benefici. Si iniziava a parlare di anfore e terracotta e mi ero appassionato di tecniche di lavorazione dell’argilla storicamente utilizzate anche in queste aree, in particolare dagli etruschi. I buccheri, ad esempio, come l’oinochoe (vaso simile ad una brocca utilizzato per versare vino e acqua), l’olpe (brocca con corpo allungato), skyphos (una profonda coppa con due piccole anse), il kantharos (una coppa con alte anse verticali) e via dicendo, con il loro caratteristico colore nero: un tipo di ceramica unica nel mondo antico. Stavo quindi lavorando su un territorio che storicamente produceva ceramica e terracotta anche per la conservazione degli alimenti fra i quali il vino. La domanda era: perché questo prodotto così nobile era stato abbandonato? La risposta la troviamo a Testaccio, a Roma, che potremmo definire come una discarica antesignana dei cocci di terracotta ottenuti dalla rottura delle anfore che viaggiavano per trasportare soprattutto vino e olio. Le anfore di terracotta erano troppo fragili. Così mi adoperai per pensare ed ideare un contenitore di terracotta, fatto con argilla del posto, ma con una forma agevole ed in uso già nelle nostre cantine, la barrique. L’intento era quello di poter utilizzare tutta la consolidata tecnologia sviluppata negli anni per accatastare le barrique, lavarle, proteggerle. Quindi una contaminazione fra vecchio e nuovo nel materiale che implicava la ricerca anche di un vino altrettanto controverso: vecchio perché Sangiovese, nuovo perché insolito; non freddo e poco evoluto dall’acciaio, non affinato con l’ossigeno ma anche dai tannini ceduti dal legno. In pratica un Sangiovese in cui l’unico, o il predominante, fenomeno di affinamento fosse l’aria. E qui ci sarebbe un mondo da scoprire circa le tecniche che potremmo utilizzare in cantina per contenere e/o modificare la qualità dello scambio di ossigeno aria/vino. Quel Sangiovese mi piaceva perché raccontava la sua storia, quella di quel particolare territorio intriso totalmente nella cultura etrusca.”
La terracotta è valida per tutti i vitigni o solo alcuni?
“Dal mio punto di vista, la domanda dovrebbe essere riformulata così: con tutti i tipi di vitigni possiamo produrre un vino con importanti scambi di ossigeno? Perché se parliamo di terrecotte, e non di ceramica, dobbiamo ricordare che questo materiale è molto poroso all’aria (in funzione dei tipo di argilla che la origina) e naturalmente ciò dipende anche dallo spessore del contenitore. Quindi se desideriamo valorizzare il ruolo dell’ossigeno la risposta è sì altrimenti, secondo me, meglio seguire altre strade.”
I costi, rispetto all’acciaio e al legno sono maggiori o più bassi?
“Dipende, come sempre, da molto fattori. Più il contenitore è piccolo, più la terracotta diventa competitiva rispetto agli altri materiali. Lavorare le terrecotte per contenitori molto grandi è complicato ancora oggi perché durante la fase di essiccazione e poi cottura i rischi di rotture sono alti: ingrandendo il contenitore e facendo pareti più spesse, aumentano. Fino ai 5 Hl possiamo dire che siamo in un ordine di grandezza comparabile con quello cui siamo abituati.”
In base ai risultati ottenuti ritiene questo affinamento “sostenibile”?
“La sostenibilità è un concetto molto articolato. Il suo pilastro “ambientale” è difficile da calcolare e, a mia conoscenza, nessuno ha mai tentato di farlo per le anfore. Certamente, nel mio caso – quello della Maremma livornese – avevo il vantaggio della prossimità dell’argilla rispetto, ad esempio, a un rovere francese o di Slavonia. Poi, l’impatto energetico per la sua cottura è certamente maggiore rispetto a quello di una barrique di rovere. Rispetto all’acciaio non avrei dubbi a favore delle terrecotte. Il pilastro “economico” della sostenibilità, ripeto, è rispettato se limitiamo il volume del contenitore. Il pilastro “etico/sociale” del concetto di sostenibilità potremmo dire preservato e difeso a patto che l’artigiano che produce il contenitore lavori con coscienza e rispetto dei valori umani.”
Si parla molto di anfora ma quale forma deve avere un contenitore in terracotta per ottenere il miglior risultato?
“Ci sono ricerche in corso, spesso più dettate dalla fantasia che dalla reale esigenza di ottimizzare il risultato qualitativo del vino affinato in terrecotte. Il suo volume è fondamentale: dai 150 litri ai 5-600. Oltre queste dimensioni credo che l’uso delle terrecotte non sia particolarmente indicato. Naturalmente anche per le terrecotte vale il discorso che, diminuendo il volume del contenitore, aumenta la superficie di scambio aria/vino e quindi a questo fattore bisogna prestare grande attenzione. Visto che necessariamente le terrecotte sono lavorate con forme arrotondate, riducendo gli spigoli vivi, credo che più che la forma del contenitore sia determinante il suo volume.”
Lezione ONAV: cosa direbbe ai suoi ragazzi su un vino di questo tipo?
“Che dobbiamo assaggiarlo senza pregiudizi ma senza neanche particolari aspettative per poi rischiare di restarne delusi. Molti vini affinati in terrecotte, se non comunicati tali, sono quasi indistinguibili da altri affinati in grandi botti a bassa cessione, ad esempio, oppure a vini in acciaio affinati a temperature piuttosto alte. In pratica la terracotta, a parer mio, lavora soprattutto con e sugli scambi gassosi e quindi è sugli aspetti organolettici da questi derivanti che dovremmo concentrarci nella fase di assaggio tecnico: ammorbidimento tattile dei tannini, accelerato processo di maturità, odori ed aromi più freschi rispetto al legno ma meno rispetto all’acciaio: direi che non stiamo parlando di uno stravolgimento del concetto qualitativo organolettico di vino ma di un potenziale strumento per rendere vini giovani ed acerbi più velocemente maturi.”